Il terzo album dei Black Stone Cherry potrebbe benissimo esser illustrato dalle sole prime tracce. L’apripista “White Trash Milionaire“, scelta anche come singolo, è un ottimo hard rock sudista in chiave Black Label Society (quelli più tamarri): si distingue però da questi ultimi per un ritornello molto, molto melodico e perfettamente in linea con certo alternative rock statunitense prettamente radiofonico. Nella successiva “Killing Floor” è ancora la band di Zakk Wylde ad essere chiamata in causa, specialmente nel riff iniziale (questa volta però nel suo volto più cupo e pesante): poi però ecco arrivare il ritornello orecchiabile che, se nel singolo risultava una mossa vincente, qui finisce per indebolire quell’atmosfera claustrofobica tratteggiata così bene nell’introduzione. Insomma, un brano riuscito e un altro meno, accomunati però da quella che sarà una costante per tutta la durata di “Between The Devil And The Deep Blue Sea”; la ricerca del ‘gancio’ giusto per poter sfondare nel mercato americano, innestando sull’ormai tipico stile della band del Kentucky, modellato su quello dei grandi dei Settanta (Led Zeppelin e Lynyrd Skynyrd in particolare), parecchie aperture melodiche affini al cosiddetto post – grunge contemporaneo.
Nel complesso è un po’ come se i Black Crowes volessero risuonare i Nickelback. Si potrebbero fare molti esempi per confermare questa tesi: “In My Blood” è robusta ballad elettrica intrisa di quegli umori tipici dei Corvi di Atlanta, ma in certi passaggi, e in special modo nella prova vocale di Chris Robertson, si percepisce la tendenza ad ‘ammodernare’ il sound; “Can’t You See“, al contrario, è spudoratamente Nickelback, eppure al suo interno sono sempre riconoscibili le origini southern dei Black Stone Cherry. Si potrebbe continuare così per quasi tutti i pezzi del disco, sia per quelli ‘agitati’ sia per le ballad. Per fortuna la svolta funziona nella maggior parte dei casi, e se qualcuno potrebbe tacciare i Nostri di volersi arruffianare il pubblico a tutti i costi, a costui si potrebbe far presente che voler vendere i propri dischi non è necessariamente un peccato mortale, e che anzi Robertson e compagni lo fanno con un certo stile, tanto che “Between…” è forse la loro miglior opera, sicuramente la più matura. Sembrano pronti per fare il grande salto, non solo a livello commerciale.