Blue Flame – Jack The Lad – Lonely Road – Fool For You – Silent Stranger – Release Me – Wild Honey – Gold Label – Worried Mind – See The Light – Four Day Creep – Caledonia
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La progressione di accordi dell’iniziale “Blue Flame” squarcia il velo e presenta sin da subito, con i suoi richiami ad Allman Brothers Band, John Mayall e Cream, l’essenza di “Grand Union”, quinto album dei Firebird, power – trio in cui l’ex Carcass e Napalm Death Bill Steer ha riposto tutti i suoi sogni fricchettoni. Evidentemente stanco di ultraviolenza e di visioni mortuarie, il Nostro da qualche anno a questa parte vive in una dimensione parallela nella quale è ancora il 1969 e l’hard blues è il genere più in voga. Chi l’ha visto recentemente suonare dal vivo credo che abbia avuto la mia stessa impressione, cioè quella di un uomo beatamente spaesato nel tempo e nello spazio.
“Grand Union” è il miglior disco mai scritto dai Firebird. Proprio perché è quello più perfettamente compiuto nella riesposizione degli stilemi blues rock di quarant’anni fa. Dopo molti lavori preparatori, Bill e compagni sono arrivati all’apice, chiarendo una volta per tutte che loro con lo stoner, genere in cui sono stati frettolosamente inseriti, non c’entrano assolutamente nulla. La loro musica non ha mai ripensato l’hard e la psichedelia in un’ottica violentemente moderna, ha piuttosto riproposto lo stesso identico suono dei vecchi tempi. Ma l’ha fatto con grazia ed eleganza, bravura e abilità, tutte qualità che sono aumentate con il passare del tempo.
“Grand Union” è un lavoro bellissimo e sconcertante. Bellissimo perché i pezzi hanno un tiro pazzesco, i suoni sono caldi e avvolgenti, le canzoni si susseguono a colpi di riff che sanno di Humble Pie, Canned Heat, Free, Yardbirds, Hendrix, birtish blues e rock sudista (nella cover di Duster Bennet, “Worried Mind”, compare pure un vertiginoso assolo di armonica), la voce di Steer è un portento di timbro e intonazione, l’organo hammond che s’inserisce nei pezzi più lenti irradia buone vibrazioni da tutti i tasti. Sconcertante perché, nel suo totale passatismo pratico e teorico, si fa beffe di qualunque concezione evolutiva, che vede (vorrebbe vedere) nella musica una progressione costante e lineare di stili e linguaggi. Ma non è colpa dei Firebird se negli ultimi anni tutto è fermo e immobile (no, non sto parlando solo del rock), e il meglio viene dal passato. Voi comunque non fatevi eccessive seghe mentali e prendetevi questo disco, perché ne vale davvero la pena. I Cream del Duemila sono serviti.
Stefano Masnaghetti