Abbiamo ripetuto fino alla nausea che il 2011 sarebbe stato l’anno dei ritorni e anche i Bush, seppur in formazione rimaneggiata, hanno fatto il loro come back. Son passati ben 10 anni dalla pubblicazione di “Golden State”, periodo nel quale sono cambiate diverse cose, tra cui l’abbandono di Nigel Pulsford e Dave Parsons, due quarti della formazione.
“The Sea of Memories” è un disco che suscita più di una perplessità. Le prime tre tracce, tra cui anche il primo estratto “The Sound of Winter”, hanno un buon mordente e rassicurano l’ascoltatore: i Bush sono quelli di sempre, nonostante la lunga pausa.
Proprio quando questa impressione prende vita, ecco arrivare le brutte sorprese. L’effetto è quello di un viaggio sulle montagne russe; dopo essere saliti talmente in alto da toccare il cielo si discende a tutta velocità, e la sensazione è quella di uno sgradevole buco nello stomaco. Ed è quello che fanno Gavin Rossdale e compagni a partire dalla quarta traccia. “Stand Up” è l’esempio lampante di ciò che dobbiamo aspettarci nella seconda metà del disco: rock debole, lyrics che sanno di già sentito, melodie stantie. Si fatica a riconoscere la formazione post grunge degli ultimi anni ’90. Certo, oggettivamente non si può dire che questo disco sia un disastro totale, ma non è sicuramente il loro album della vita. Il rammarico maggiore è la certezza che la formazione britannica avrebbe potuto fare molto di più, stando ai brani d’apertura. A questo punto avrebbero potuto aspettare qualche mese in più, per poter confezionare un gioiellino, ma evidentemente era così grande la voglia di tornare presto sulla scena musicale da preferire un potenziale commerciale elevato piuttosto che un lavoro più articolato.
Un vero peccato che una partenza rombante da Ferrari monoposto sia stata annacquata così.
Claudia Falzone