Explosions In The Sky – Take Care, Take Care, Take Care

I meriti musicali di Explosions In The Sky sono indubbi. Tanto che, quando al perfetto neofita si vuole fornire un bigino che contenga il minimo indispensabile per capire il post – rock, i nomi che generalmente si consigliano sono quelli di Slint (gl’iniziatori di tutto), Tortoise, Godspeed You ! Black Emperor, Sigur Rós, Mogwai e, appunto, Explosions In The Sky. I quali ultimi rappresentano l’aspetto più scopertamente chitarristico e per certi versi ‘viscerale’ del genere, in cui l’accento è instancabilmente posto nei poderosi crescendo realizzati tramite l’uso di ben tre chitarre in grado di creare spessissimi wall of sound. Procedimento, questo, che anche le altre band citate utilizzano spesso (in particolare i Mogwai), ma mai in modo sistematico come fanno i texani.

E infine è proprio tale modus operandi ad essere, simultaneamente, il punto di forza e la debolezza del quartetto. Certo in passato ha permesso a EITS di guadagnare un grosso seguito e di crearsi uno stile decisamente personale, e almeno fino al terzo album, “The Earth Is Not A Cold Dead Place” (2003), la qualità è stata sempre elevatissima; fra l’altro il loro influsso è andato ben al di là del post – rock propriamente detto, lambendo i territori del metallo mutante praticati da band come Pelican e Red Sparowes, solo per citare le più famose. Ma, come quasi sempre accade nell’utilizzare uno stile troppo codificato, col passare del tempo l’inventiva si è progressivamente inaridita e gli ultimi lavori hanno iniziato a mostrare la corda e a ripetere un cliché a volte non corroborato dalla necessaria ispirazione.

Tutti difetti che mostra anche “Take Care, Take Care, Take Care”. Qui, ancora una volta, le consuete lunghe perorazioni strumentali seguono i soliti schemi di accumulazione emotiva e di conseguente distensione, in un continuo oscillare fra crescendo e diminuendo, stando sempre attenti affinché tutto suoni perfetto e gl’intarsi fra chitarre e ritmica siano impeccabili. Unici elementi di discontinuità sono un certo senso di maggior rilassatezza (cfr. “Human Qualities”), che porta ad alcuni passaggi più vicini del solito all’ambient, e qualche intervento vocale nella forma di ripetuta eco che si riverbera fra le pieghe della massa strumentale (cfr. “Trembling Hands”). Quindi, degli EITS leggermente più romantici, ma che nel complesso non sanno davvero dire nulla di nuovo, e per un gruppo che ha fatto dell’innovazione il suo primo cavallo di battaglia questo costituisce un problema. Manca poi quella tensione sempre attiva nei primi tempi, e il senso di catarsi che derivava dal suo esser fatta esplodere accordo dopo accordo. Ora, fra raffinatezze di ogni sorta e quadretti bucolici, si è un po’ persa anch’essa, ed ecco un ulteriore problema.

Non un brutto album, semplicemente qualcosa di sin troppo risaputo, con l’aggravante di essere per giunta eccessivamente blando. Ai fan probabilmente piacerà (ma non a tutti), gli altri rimangano fissi sui vecchi (capo)lavori, e chi ancora non li conosce si procuri questi ultimi al più presto.

Stefano Masnaghetti

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