La proposta degli Honeybird And The Birdies è qualcosa di parecchio anomalo nel nostro panorama: questi tre uccellini che amano le sonorità tropicali e gli strumenti anomali (dal charango alle svariate percussioni usate al posto di una più canonica batteria) si destreggiano molto bene nella scrittura di canzoni con uno spettro di influenze così ampio da non poter mai risultare banali o già sentite. Mi hanno fatto immediatamente venire in mente i Tune-Yards, magari un po’ più scanzonati, o quei gruppi svedesi che sul palco parevano divertirsi un sacco e andavano di moda un po’ di anni fa.
Ecco, che si divertano tantissimo quando suonano, e che siano tre ottimi musicisti, sono due cose che non si possono assolutamente mettere in discussione. Tutto il disco scorre come un’enorme e colorata festa sgangherata in cui si spaccano pinatas e si beve e si ride parecchio. Avete presente quella scena di “Arizona Dream” di Kusturica? Ecco, quella: me li vedrei bene gli Honeybird and the Birdies a suonare nel giardino di una casetta di matti, in una giornata fin troppo assolata.
L’idea convince parecchio, per essere una prima prova. I pezzi sono cantati in varie lingue e composti ispirandosi all’infinito caleidoscopio della world music, c’è tempo per i tropicalisimi sfrenati di “Maximon/Guatemala Feliz” e per la parodia della canzone francese alla Les Negresses Vertes (citatissimi in tutto l’album), ci sono momenti più scuri e distorti, quasi riflessivi, come quelli di “Those Who Never Made It Back Home” e parecchie reminescenze klezmer buttate qua e là, tutto questo senza che ci si possa annoiare.
Peccato quindi per le poche cadute di stile, per il delirio alla fine di “Sexy Tour Guide/Tutto al Limone”, che sicuramente funzionerà live, ma su disco, in mezzo al disco, risulta solo snervante. Peccato anche per le (poche) volte in cui i pezzi si avvitano troppo su se stessi, continuando a cambiare forma ma perdendo la linearità.
Per il resto, davvero, niente da dire. Una manna, per chi apprezza il genere.
Francesca Stella Riva