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Tornano al disco i Morlocks, band fra le più importanti nel panorama del garage revival degli ultimi trent’anni, sia con la formazione originaria degli anni Ottanta sia con quella attuale post reunion, guidata sempre dal folle Leighton Koizumi (già Gravedigger Five), unico anello di congiunzione fra le due vite del gruppo. Sicuramente i californiani hanno sempre onorato il proprio nome: esattamente come i Morlocks di H.G. Wells, anche Koizumi e compari abitano l’underground e appaiono in superficie raramente, e solamente per portare ‘alla luce’ vecchi tesori ripescati dal garage più sotterrano e selvaggio dei Sessanta. Un’integrità che non hanno mai perso e, si può star sicuri, mai li abbandonerà.
Sfortunatamente, “The Morlocks Play Chess” non è un album d’inediti. Neppure si son messi a giocare a scacchi. Semplicemente si tratta di un gioco di parole per meglio omaggiare alcuni classici della leggendaria Chess Records, l’etichetta di Chicago per la quale hanno inciso gran parte delle leggende del blues, del rhythm’n’blues e del primo rock’n’roll. Ecco allora sfilare impetuosamente cover di Bo Diddley, Chuck Berry, John Lee Hooker e Howlin’ Wolf, solo per citare i più famosi. A sentire come i Morlocks interpretano queste pietre miliari, si può mettere tra parentesi quello ‘sfortunatamente’ di cui sopra. La prima metà dell’LP è semplicemente perfetta: “I’m a Man” di Bo Diddley è già una botta d’adrenalina pazzesca, l’armonica sibila impietosa e così fanno anche le chitarre; stessa sorte toccherà a “Who Do You Love”. “Help Me” di Sonny Boy Williamson cita in apertura nientemeno che gli Who di “My Generation”, e lo fa con il giusto piglio delinquenziale. E ancora “Killing Floor” (Howlin’ Wolf), “Boom Boom” (Hooker), “Smokestack Lightning” e il rock’n’roll arcaico di “Promised Land” vengono sommersi da fuzz, svalvolamenti elettrici allo stato brado e dalle urla di Leighton, che in tutti questi anni non ha perso nulla della sua carica ‘primitiva’. Poche band sanno suonare il garage in modo così genuino e coinvolgente come loro, e il banco di prova rappresentato da questi brani è superato al 100%.
Il disco cala leggermente nella seconda parte, specialmente nelle due tracce conclusive: “You Can’t Sit Down” (ma i Dovells incidevano per Chess Records?) mostra un arrangiamento rock’n’roll piuttosto banale, mentre “Back In The USA” di Chuck, con tanto di sezione fiati, è fin troppo ‘leccata’ rispetto ai loro standard. Poco male, i Morlocks sono vivi e vegeti, e in attesa del successore dell’ottimo “Easy Listening For The Underachiever” (2008) questo lavoro può esser considerato quale antipasto sopraffino.
Stefano Masnaghetti