Bastano pochissimi ascolti del suo titanico nuovo doppio album per rendersi di come Grant Hart sia finalmente riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di ex batterista degli Hüsker Dü e, sopratutto, l’ombra gigantesca del suo compagno di viaggio Bob Mould, da sempre considerato il deus ex machina ed unico genio musicale autentico della band americana.
La cosa sorprendente è che Hart sia riuscito nell’impresa proprio quando, dopo una manciata di album deludenti e dagli scarsi esiti commerciali, sia i fan che gli addetti ai lavori lo consideravano ormai un semplice relitto degli anni ottanta. Influente come pochi, ma pur sempre un relitto incapace di risorgere dalle proprie ceneri, dai propri fantasmi, dai segni lasciati da una vita di dipendenza. Invece, dopo un incontro col segretario personale di William S. Burroughs, James Grauerholz, Grant ritrova quella luce interiore che per troppi anni era venuta meno. Grauerholz, amico di vecchia data come lo stesso Burroughs, gli mostra uno scritto inedito basato sul Paradiso Perduto di Milton, ma trasfigurato dalla sua poetica visionaria, suggerendogli che sarebbe stato perfetto per un nuovo album.
Grant, ammaliato dai quei racconti di angeli caduti e trasformatisi in alieni ribelli nei confronti di un Dio che prende le sembianze del presidente Truman, non ci pensa un secondo e, aggiungendovi elementi di disturbante attualità, confeziona uno dei capolavori musicali dello scorso anno. Un lavoro cerebrale, curato in maniera maniacale e senza dubbio il più ambizioso dai tempi di Zen Arcade, che però scorre liscio nonostante le venti tracce e le lancette che superano abbondantemente l’ora. In un solo colpo, quasi fosse un canto del cigno, Hart recupera il mai sopito amore per le trame pop che decretarono il successo dei suoi brani negli Hüsker, insieme alla capacità di creare ritornelli assassini abbelliti dall’utilizzo di strumenti inusuali quali carillon, campanelli e autoharp.
Al di là del songwriting, che non toccava queste vette da decenni e che spazia dal country al pop passando per le marcette, quello che davvero stupisce maggiormente è la voce del musicista, che pareva ormai essere svanita insieme all’ispirazione e agli abusi perpetuati sul proprio fisico: basta ascoltarne l’utilizzo sulle strazianti Is The Sky The Limit? e I Will Never See My Home, forse il brano più intenso del disco, così come sulle più ritmate Gloriuos e Golden Chair o nella inusuale Underneath The Apple Tree, per rendersi conto dello stato di forma sopra la media rispetto ai coetanei di quella generazione.
Mentre in molti ancora sperano in una reunion per la celebrazione del loro capolavoro assoluto, Hart riesce di fatto a togliersi dalle spalle l’ingombrante fantasma della sua band d’origine, senza rinnegare un milligrammo di quell’avventura ma levanddosi allo stesso tempo qualche sassolino dalla scarpa. Chissà, forse era necessario un incontro postumo con Burroughs per ridare stimoli ad un vecchio junkie come Grant Hart e riportarlo nell’olimpo che gli spetta da troppo tempo.
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