Torna sulle scene Hannah Fairchild, giovane cantautrice polistrumentista (e anti-eroina, a suo dire) proveniente da Brooklyn, NY. E lo fa con All our heroes drank here, secondogenito della sua produzione, dopo l’album di debutto Paper Kingdoms, prodotto nel suo appartamento durante il periodo di convalescenza da un brutto incidente.
Il mancato successo nella via maestra del teatro che l’ha condotta definitivamente sul selciato musicale non ha però affievolito il suo spirito istrionico, ben presente sin dalla traccia d’apertura del disco (e per molti aspetti la più significativa) A biography of cells, dove l’irrefrenabile drammaticità e l’anima baroque pop che le sono valse accostamenti altisonanti con Kate Bush e Regina Spektor prendono quota e coinvolgono l’orecchio sin dal primo ascolto. Sulla medesima scia si muove il resto dell’album, tra mutamenti costanti di ritmo e registro vocale, raggiungendo sul calare di questo un altro picco notevole in Party Faithfull.
Ma gli Hannah vs. the Many non sono solo questo: in True Believers, toccante ballata acustica, viene sfoggiato il loro lato più intimista, mentre nella conclusiva Jordan Baker, il lato più danzereccio che strizza più di un occhio al pop fine anni novanta.
Una buona prova per un’artista che, come molti, sa bene quanto sia duro l’asfalto per chi decide di intraprendere una carriera come questa, prodiga di tombini in cui inciampare e mattonelle che sporgono dai larghi marciapiedi. Ma del resto per una abituata a cadere e rialzarsi, sono le scritte luminose sui tabelloni di quelle vie le uniche cose che contano.
Andrea Suverato