[Hard Rock] Spiritual Beggars – Return To Zero (2010)


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Dopo cinque anni di silenzio – tanti ne sono trascorsi dal precedente “Demons” – gli Spiritual Beggars tornano al disco con “Return To Zero”, loro settimo album da studio. In passato, la band dell’ex Carcass Michael Amott si era distinta per il felice esito del suo recupero dell’hard rock degli anni Settanta, mai trattato quale mero reperto archeologico, bensì vivificato da una notevole dose di fantasia e inventiva, grazie anche al connubio con lo stoner dell’ultima generazione. Nascevano così grandi opere come “Mantra III” (1998) e “Ad Astra” (2000), in grado di smuovere all’entusiasmo più di un appassionato. Il parziale calo dell’ispirazione, avvenuto con “On Fire” (2002), non sembrava comunque irreversibile, e infatti con il già citato “Demons” gli Spiritual Beggars tornavano a volare alto (anche se, forse, non hai livelli dei loro capolavori).

Oggi, però, le cose sono nuovamente cambiate. In peggio. Sembra che la vena creativa del quintetto si sia inaridita, e in modo più preoccupante rispetto al piccolo sbandamento di qualche anno fa. Innanzitutto, dietro al microfono non c’è più il dotatissimo Janne “JB” Christoffersson, noto anche per la sua militanza nei Grand Magus: al suo posto troviamo Apollo Papathanasio, proveniente dai power metallers statunitensi Firewind. In effetti, la dipartita di JB si fa sentire, non essendo Apollo così incisivo nel valorizzare le atmosfere di antico rock Seventies quanto il suo predecessore. Tuttavia bisogna essere onesti, e il nuovo cantante, tutto sommato, se la cava abbastanza bene, riuscendo a non sfigurare più di tanto.

Il vero problema è, semplicemente, la scarsa qualità dei nuovi pezzi e la loro monotonia di fondo. Nonostante la loro perfezione formale – gli Spiritual Beggars sono ormai attivi da quasi vent’anni, e in campo hard’n’heavy sono davvero delle vecchie volpi – “Return To Zero” non riesce mai a convincere, e con il trascorrere delle tracce l’attenzione cala inesorabilmente. Una delle cause di questa involuzione è da ricercarsi nella minor presenza della componente stoner rispetto ad un tempo; rimangono alcuni sparuti accenni a questo genere, vero, ma il fuoco che riusciva a incendiare grandi pezzi come “Angel Of Betrayal” o “Left Brain Ambassadors” pare svanito, così come scomparsi sono anche i riffoni grassi e saturi che avevano, per citare un altro esempio, resa ciclopica una canzone come “Homage To The Betrayed”. Al posto di tutto questo, l’omonimo intro in stile Pink Floyd prelude a una lunga teoria di luoghi comuni in chiave Deep Purple, Uriah Heep (dei quali, nell’edizione giapponese, compare anche una cover, “Time To Live”), Rainbow e Led Zeppelin. Con l’aggiunta di alcuni passaggi doom oriented che, ovviamente, rimandano ai Black Sabbath. Rimane poco da salvare: in quasi un’ora di musica spiccano “Spirit Of The Wind”, ballad di buona fattura, e soprattutto “The Chaos Of Rebirth”, miglior brano del lotto, dal lento incedere doom che nel finale si trasforma grazie a un’ottima accelerazione; il tutto impreziosito ulteriormente da sapienti tocchi di organo hammond. Il resto si perde in assoli piuttosto banali, mid tempo scolastici e uno sgradevole retrogusto che sa di stantio.

Un brutto passo falso per il complesso di Amott. È certo possibile – anzi, probabile – che gli Spiritual Beggars sapranno smentirmi in futuro, e tornare ai fasti di un tempo. Ma per adesso “Return To Zero” ha davvero poco da dire.

Stefano Masnaghetti

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