Diciamolo chiaro e tondo: viviamo in anni di spudorato “revival”. Sembra quasi che tutte le giovani band, per riuscire a strappare un contratto discografico importante, debbano per forza rivolgersi al passato. Non importa si tratti di riciclare la wave Ottantiana oppure di riproporre i riff degli At The Gates spacciando il tutto per metalcore oppure di clonare il glam rock dei Settanta; quello che conta è far intendere che stai suonando qualcosa che il pubblico conosce, che non deve sforzarsi di capire, e che, di conseguenza, le possibilità di vendita risultano nettamente più alte rispetto a quelle di un gruppo più “coraggioso”, dal quale il suddetto pubblico potrebbe essere disorientato. La qui presente potrebbe sembrare una polemica a senso unico, ma è meglio precisare che, tra tanti prodotti piatti, scontati e soporiferi (alcuni al limite del plagio), si possono trovare dischi egregi anche in ambito puramente retrospettivo. I due album che si tratteranno in seguito sono tra quanto di meglio si possa chiedere, oggigiorno, alla riscoperta dell’hard rock di matrice Seventies (principalmente quello della sacra trimurti Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath). Parliamone più dettagliatamente.
[Hard Rock] The Quill – In Triumph (2006)
Keep The Circle Whole – Yeah – Slave / Master – Broken Man – Man In Mind – Merciless Room – Trespass – Black – No Light On The Dark Side – Triumph Is A Sea Of Flame – In The Shadows – Down
In passato inseriti indebitamente nel calderone stoner, gli Svedesi The Quill, con il quinto full – length della loro ormai decennale carriera, dimostrano una volta ancora che loro con Kyuss, Monster Magnet e compagnia c’entrano ben poco. Il precedente “Hooray, It’s A Deathtrip” li aveva proposti come puri epigoni di complessi quali Led Zeppelin, Whitesnake e Black Sabbath: il nuovo “In Triumph” non esce di un millimetro dal perimetro tracciato dai capitoli precedenti. Nessuna concessione alla dilatazione psichedelica tipica dello stoner, nessuna rielaborazione heavy del rock di un trentennio fa, solo la fedele riproposizione del sound d’antan delle band sopraccitate. Nonostante questo, il quartetto riesce a convincere e a divertire lo stesso, grazie al notevole groove dei pezzi più riusciti (da citare tra questi l’opener, “Slave / Master”, probabilmente la song migliore del disco, e “Trespass”), e alla squisita purezza vocale di Magnus Ekwall, che ricorda a tratti quella del grande Chris Cornell (ex Soundgarden, ora negli Audioslave). Un buon prodotto insomma, da ascoltare tutto d’un fiato, ideale per una serata spensierata o per un lungo viaggio in macchina: peccato il calo qualitativo riscontrabile nelle tracce finali, e la sensazione che i The Quill non riescano a far valere del tutto il loro talento, preferendo giocare sempre sul sicuro, ma risultando così troppo prevedibili in alcuni frangenti. Rimane la sicurezza di poter contare su di un gruppo onesto, che produce album di genere, ma lo fa con grande maestria.
[Hard Rock] Wolfmother – Wolfmother (2006)
Colossal – Woman – White Unicorn – Pyramid – Mind’s Eye – Joker And The Thief – Dimension – Where Eagles Have Been – Apple Tree – Tales From The Forest Of Gnomes – Witchcraft – Vagabond
www.interscope.com
www.wolfmother.com
Gli Australiani Wolfmother rappresentano, in ambito rock, la “next big thing” del 2006, la ragione per cui si può parlare già da ora di “ritorno degli anni Settanta”. Doveva pure accadere anche questo, dopo tutti i ripescaggi a cui siamo stati abituati in questo inizio di millennio. Pressoché sconosciuti, si guadagnano subito un contratto con una major (!) e, va detto, sfornano un debutto incredibile. Sul disco c’è scritto 2006, ma se non ci fosse scritto nulla penseremmo di avere a che fare con un album uscito nel 1972, o giù di lì: perché anche la produzione è vintage come poche. Si nota immediatamente che questi ragazzini hanno un bagaglio culturale molto esteso, se si parla di musica uscita a cavallo dei decenni Sessanta / Settanta: le 12 canzoni che vanno a comporre il loro omonimo esordio spaziano tra i soliti noti Led Zeppelin, Black Sabbath, Uriah Heep, ma si trovano anche parecchie influenze di ascendenza ancora più antica: il fuzz dei Blue Cheer, le atmosfere bluesy dei Captain Beyond, certo hard flautistico che ricorda da molto vicino i Jethro Tull, i riff grezzi e diretti dei Sir Lord Baltimore, e l’elenco potrebbe essere ancora lungo. Stupisce la loro abilità compositiva, un songwriting costantemente alto, la totale mancanza di filler per tutto il disco: certo parliamo di roba stravecchia (anche a livello lirico, a giudicare dai titoli dei brani), ma in un periodo in cui tutto, o quasi, suona già sentito e risentito mille volte, fa piacere scoprire un gruppo che perlomeno ha la capacità d’intrattenere l’appassionato senza mai annoiare (impresa non facile, dato che il disco dura più di 50 minuti). Non facciamoci troppi problemi, e gustiamoci quest’opera anacronistica ma terribilmente affascinante, in attesa del prossimo revival del nu metal.
S.M.