[Indie Folk] Monsters Of Folk – Monsters Of Folk (2009)
Dopo anni passati a ospitarsi a vicenda nei loro vari album e sul palco durante i concerti delle loro band, dopo aver registrato questo album in due studi diversi, l’home studio di Mike Mogis e lo Shangri-La a Malibu, casa sia dei The Band che di Neil Young, eccoli, i Monsters Of Folk.
Sua Maestà Conor Oberst, il suo pupillo M.Ward, Jim James dei My Morning Jacket e Mike Mogis, compagno di Oberst nella Saddle Creek e nei Bright Eyes, arrivano come cavalieri puri di cuore ad offrirci il loro divertimento in veste di cd, a proporci quindici canzoni epiche, sentite ma soprattutto profondamente americane.
Americane come Dylan e Springsteen, due fantasmi che negli album solisti di Conor Oberst sono evocati sempre più di frequente, americane come le lap steel che echeggiano sotto molti pezzi, ma americane soprattutto per l’aria che ci fanno respirare, per la loro immediatezza pittorica, descrittiva. Ascoltate The Sandman, The Brakeman And Me, esempio del songwriting cristallino di M.Ward, senza dubbio la personalità più in crescita all’interno di questo collettivo, e sentirete quanto questo racconto di un viaggio in treno vicinissimo ai testi del delta blues sia radicato nel passato musicale degli Stati Uniti, ascoltate Whole Lotta Losin’ e riuscirete ad afferrare per il vestito di lustrini il fantasma di Elvis Presley prima che scappi via del tutto con l’arrivo della ballad Tezmacal, ascoltate Magic Marker e vi ritroverete in smoking al ballo di fine anno del vostro liceo: quest’album è tradizionalista, divertente e molto ruffiano, alla continua ricerca del perfetto gancio pop, come in Goodway, ma proprio per questo molto, molto, piacevole.
Complimenti ad un supergruppo che riesce a non sembrare neanche per un momento quel gomitolo di egocentrismi nel quale di solito sfociano questo genere di esperimenti, ma che piuttosto suona come il frutto di una grande amicizia e di molta voglia di suonare, come risulta chiaro anche dalla decisione di accreditare tutti i pezzi alla band al completo, pur essendo le paternità abbastanza evidenti ( non ditemi che Man Named Truth non è di Conor Oberst e che His Master’s Voice o Magic Marker non sono di Jim James), complimenti ad una band in cui tutti i membri suonano a rotazione tutti gli strumenti, cosa che magari può risultare limitante a livello tecnico ma di sicuro fa guadagnare in intensità (ascoltare la batteria di Losin’Yo’ Head, suonata da Conor Oberst, per farsi un’idea di quello di cui stiamo parlando).
Post Scriptum: Attenzione alla prima traccia, Dear God (sincerely, M.O.F), difficile da sopportare sia per colpa di un testo un po’ troppo banale (giocato sul solito trito e ritrito vecchio tema della lettera a Dio) che del cantato, troppo bianco per essere credibilmente soul come forse era intenzione, che potrebbe farvi passare la voglia di proseguire nell’ascolto: non è per nulla rappresentativa del resto dell’album, e se doveste spegnere lo stereo prima di aver sentito il seguito vi perdereste molto cuore, qualche sbandata, e soprattutto uno degli album più godibili del 2009. Quindi, per favore, soprassedete su questo orrore.
Francesca Stella Riva