[Indie Rock] Spoon – Transference (2010)


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Con il precedente “Ga Ga Ga Ga Ga” il quartetto di Austin aveva raggiunto per la prima volta la top ten di Billboard, risultato eccezionale per una band di tal fatta. In effetti, si trattava di un album molto indulgente verso la melodia orecchiabile e l’ornamentazione pop, ricco di accenti beatlesiani e dalla timbrica piuttosto rigogliosa, con tanto di sezione fiati a far qualche breve comparsa. Ma gli Spoon non sono band alla ricerca di facili hit; hanno sempre preferito sfruttare la loro vena melodica per smontare e rimontare il rock disco dopo disco, maturando uno stile che è ormai inconfondibile. A inizio carriera vennero scambiati per dei nuovi Pixies, ora gran parte della critica li avvicina ai Wilco, in realtà gli Spoon sono semplicemente gli Spoon (e non credete a Jim Eno quando afferma che suonano del ‘semplice’ rock’n’roll).

“Transference” è un altro prezioso tassello della loro ricerca sonora. Evidente il cambio di prospettiva rispetto al predecessore: questa volta gli abbellimenti sono ridotti all’osso, la strumentazione utilizzata è più scarna (basso – chitarra – batteria più qualche intrusione di tastiere e pianoforte), gli arrangiamenti quasi sempre spartani. Oltre a ciò, il disco è autoprodotto e molte canzoni sono fondamentalmente dei demo (“Trouble Comes Running” è lo – fi casalingo). Forse è per questo che Britt Daniel lo ha definito ‘brutto’. Eppure, nonostante la presunta bruttezza, i pochi e misurati mezzi utilizzati per comporlo e le strutture semplici e lineari dei suoi brani, “Transference” rappresenta l’apice della creatività del complesso, che in poco più di quaranta minuti è in grado di suonare quello che vuole, come vuole e quando vuole.

La prima parte dell’album è all’insegna del folk e del classic rock. “Before Destruction”, magra e acustica, potrebbe essere un pezzo di Neil Young riletto dai R.E.M.; la saltellante “Is Love Forever?” somiglia a una versione leggera e minimalista dei Queens Of The Stone Age; “Mistery Zone” e “Who Makes Your Money” si dividono tra soft rock per adulti e tentazioni soul. Poi l’atmosfera si riscalda, ed ecco arrivare il rock blues di “Written In Reverse”, con pianoforte barrelhouse, chitarra stridente e il canto di Daniel che si fa più roco, deciso e urlato. Potente e bluesy è anche la successiva “I Saw The Light”, ma in questo episodio gli Spoon piazzano un grande numero d’illusionismo: improvvisamente il brano s’interrompe e cambia volto; sparisce la voce, la batteria di Eno scandisce un tempo motorik, mentre accordi di piano e una chitarra secca e metallica disegnano sfondi kraut – rock (ulteriore omaggio ai Can, dai quali gli Spoon hanno mutuato il proprio nome). “Transference” si conclude infine con due composizioni che guardano alla new wave: “Got Nuffin” guizza fra Joy Division, Sister Of Mercy e P.I.L., mentre “Nobody Gets Me But You” è synth pop che scandaglia Kraftwerk e Depeche Mode, per poi terminare in dissonanze di piano e chitarra.

Il settimo album in studio dei texani è poco appariscente e al primo ascolto potrebbe apparire persino un po’ grigio e anonimo. Non è così: probabilmente è una delle loro migliori prove, addirittura più riuscita del maggiormente spettacolare “Ga Ga Ga Ga Ga”. Un esempio di decostruzione del rock che però non dimentica l’importanza della comunicatività.

Stefano Masnaghetti

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