Improvisation 2 – Passion Dance – 500 Miles – Mr. P.C. – Blues On The Corner – Improvisation 1 – Trade Winds – Amberjack – My Favorite Things – Slapback Blues – Greensleeves – Contemplation – Boubacar – Baba Drame
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Più che un semplice disco, “Guitars” è un pezzo di storia del jazz. Sulle prime la mia potrebbe sembrare una dichiarazione ad effetto (e in parte lo è), ma uno sguardo ai nomi coinvolti nel progetto farà capire che non sono andato molto distante dalla realtà. Prima di tutto il titolo, semplice e conciso, offre un approccio prefetto al contenuto: Marc Ribot, John Scofield, Bela Fleck, Derek Trucks e Bill Frisell sono i nomi che sfilano traccia dopo traccia. Fosse stato presente anche Pat Metheny, avremmo avuto il pantheon completo dei chitarristi jazz, fusion e affini contemporaneo. Ma anche così ci si può accontentare. Poi, ancora: Jack DeJohnette (John Coltrane, Miles Davis, Keith Jarret, ecc.) alla batteria, Ron Carter (Miles Davis, Herbie Hancock, Eric Dolphy, ecc.) al contrabbasso. A chiudere il cerchio, il maestro di cerimonie McCoy Tyner al piano: inutile elencare collaborazioni e successi della sua carriera, l’aver suonato nel quartetto di Trane ai tempi delle registrazioni di “A Love Supreme” basta e avanza a renderlo un mostro sacro.
Con musicisti di questo calibro, le aspettative sono altissime. Vengono mantenute al 90%, non sufficienti a rendere “Guitars” un disco epocale, abbastanza da farne uno splendido esempio di jazz moderno. Nei 14 episodi che lo vanno a comporre, c’è spazio per sondare le varie anime dei virtuosi chiamati in causa: anzi, sembra quasi che dietro all’album ci sia un programma ben congeniato, un’alternanza tra composizioni aggressive e dinamiche e altre più rarefatte e soffici. Marc Ribot è presente in ben quattro pezzi: nelle due “Improvisation” mostra il suo lato più sperimentale, memore degli esordi con i Lounge Lizards, nel tourbillon ritmico di “Passion Play” è rapidissimo e swingante, in “500 Miles” cool e rilassato. Scofield, presente nella cover di Coltrane “Mr. P.C.” e in “Blues On The Corner”, funge ancora una volta da contraltare al suo vecchio amico Bill Frisell, al quale vengono affidati gli ultimi tre brani: la tecnica è simile, ma mentre il timbro della sei corde di John è morbido e quasi confidenziale, quello di Bill è secco e astratto. I pezzi più coraggiosi sono quelli che vedono la presenza del banjo di Bela Fleck: si passa dal tocco quasi orientale di “Trade Winds” al folk – bluegrass di “Amberjack”, ma quello che spicca maggiormente è la rilettura dello standard “My Favorite Things”, primo cavallo di battaglia di Coltrane; l’interplay tra sezione ritmica e pianoforte è perfetto, mentre Bela esegue il tema donandogli uno strano senso di malinconia e arricchendolo con arpeggi e pizzicati di rara raffinatezza. C’è posto anche per il giovane blues rocker Derek Trucks, che in “Slapback Blues” è protagonista di un convincente assolo di slide guitar. Meno riuscita è la sua rielaborazione del classico motivo rinascimentale “Greensleeves”, unico episodio non del tutto a fuoco presente nel disco: anche per artisti di questo livello è difficile conciliare spirito jazz – blues e folk di cinque secoli fa.
Ovviamente, non posso chiudere la recensione senza dedicare qualche riga a McCoy, un signore che in cinquant’anni di carriera è passato dal jazz modale alle sperimentazioni free, per poi guardare alla world music e approdare, infine, ad una personalissima sintesi di hard bop e post swing. A settant’anni compiuti il suo pianismo massiccio è ancora fluido e imponente come se a suonarlo fosse un ragazzo, e in questo caso si amalgama perfettamente con l’elettricità delle chitarre, privo di fastidiosi protagonismi, funzionale all’architettura dei pezzi. Anche per questa intelligente scelta “Guitars” risulta un album quasi completamente riuscito.
Stefano Masnaghetti