Joe Bonamassa, trentaquattrenne dello stato di New York, è infaticabile. Assomiglia al coniglietto delle pile Duracell che non si ferma mai. Dodicesimo album in studio e come se non bastasse un nuovissimo progetto alle spalle, quello dei Black Country Communion che è stato accolto dai più come il miglior evento musicale degli ultimi 10 anni. Super gruppo che così non se ne vedevano dallo scioglimento dei Cream a fine anni ’60.
Il talento d’America, enfant prodige delle sei corde, ha pubblicato “Dust Bowl” e per la realizzazione dello stesso non si è accontentato di scegliere uno studio di registrazione stabile, al contrario, tutta la troupe ha pensato bene di organizzare il lavoro tra i Black Rock Studio sull’isola di Santorini, località alquanto insolita per la registrazione di un disco rock blues – a meno di non essere di fronte al nuovo orizzonte del blues europeo – il Ben’s Studio di Nashville – dal più tradizionale sapore bluesy – Malibu e Los Angeles.
Il Blues, è cosa nota, non regala grandi colpi di geniale innovazione – nonostante sia un genere alla ribalta da quasi 100 anni – e quindi anche questa ultima release non spicca per particolari highlights degne di rifondare un genere intero. Il disco ad un primo ascolto si presenta esattamente nello stesso modo che al secondo, al terzo e via dicendo fino al 52°. Dodici pezzi di blues – rock compatto, condito e insaporito dalle parti in solo di uno che la chitarra la conosce come le sue tasche. Voce limpida e fragorosa da sempre, Joe non risparmia virtuosismi manuali e vocali che fanno del tutto un’opera sinceramente blues.
Tuttavia la personale evoluzione di Joe Bonamassa è tangibile dal primo all’ultimo pezzo, una crescita non solo stilistica, ma anche e soprattutto personale, come lo stesso musicista ha riferito. Dietro alla console di registrazione un notevole aiuto lo ha dato Kevin “Caveman” Shirley (produttore di Black Crowes, Aerosmith, Led Zeppelin) che già aveva collaborato con il Nostro per la realizzazione del precedente “Black Rock”.
“Dust Bowl” spiega Shirley, “è fortemente ancorato al blues, ma in fin dei conti si addentra nell’esplorazione del genere, ricavandone delle diverse conclusioni grazie ai virtuosismi di Joe e alla ricerca psicologica personale fatta da lui stesso”. Lo stesso Bonamassa ha poi pensato di aggiungere che questo fosse il miglior album che avessero mai realizzato, “avendo trovato maggior ispirazione nelle liriche durante i miei trenta, cosa che mi ha consentito di scrivere qualcosa di più profondo rispetto al solito my baby left me”.
Francesco Casati