Tutti quelli che non conoscono John Maus, troveranno in questo disco una buona motivazione per andare a scavare nelle sue pubblicazioni che, considerando anche la carriera underground, partono dal 1991 (tempi delle collaborazioni con Sam Anderson e Cory Boik) sino al 1999, quando con il disco “Underground” comincia a collaborare con Ariel Pink prima della svolta solista del 2006 con il disco “Songs“, uscito per l’etichetta inglese Upset The Rhythm.
Maus nasce come compositore, infatti il suo percorso artistico-musicale inizia alla California Institute Of The Arts dove studia, appunto, musica; prosegue con una laurea in filosofia presso la European Graduate School ed un’ulteriore laurea in filosofia politica da raggiungere nel 2011. Per sua stessa dichiarazione, gli studi hanno molto influenzato il modo di concepire la musica non solo come esperimento ma anche come performance artistica; la personalità che più di tutte ha influenzato il percorso e l’evoluzione musicale di John Maus è quella di John Cage, uno dei musicisti fondamentali del Novecento, che ha dato un grande apporto alla definizione della musica contemporanea.
Nel disco, oltre al singolo di lancio “Quantum Leap“, vanno segnalati anche pezzi come “Hey Moon“, romantica ballata elettronica a metà tra sogno e favola, “Keep Pushing On“, incisivo e dritto pezzo con chiari rimandi all’elettronica degli anni ’90, la (purtroppo) brevissima “The Crucifix” e “Cop Killer“, uno dei pezzi meglio riusciti dell’album. L’utilizzo dell’elettronica per tutta la durata dell’opera è preciso ed essenziale e crea un ponte tra le lyrics (esigue, per scelta) e la melodia, un ottimo ponte soprattutto dal punto di vista compositivo/creativo. Il cantato è l’unico punto a (s)favore dell’album; infatti, a seconda dei gusti e della chiave interpretativa si può apprezzare o meno la scelta di Maus di utilizzare linee melodiche ed effetti sonori applicati alla voce che rimandano la mente ai fasti della darkwave internazionale, fattore che ai fan del movimento sicuramente strappa un sorriso ed un consenso, ma che può lasciare un po’ spiazzati.
Probabilmente “We Must Become The Pitiless Censors Of Ourselves” non è un disco adatto ad una fascia ampia di pubblico, non tanto per demeriti artistici e/o musicali quanto forse per la caratura alta dello stesso e la necessaria ed elevata soglia d’attenzione nell’ascolto per poter comprendere le diverse sfaccettature presenti. Sicuramente, invece, sarà un ottimo prosieguo alla doppietta di album precedenti per i fan accaniti che seguono Maus durante le sue frenetiche esibizioni live. Un ascolto (e forse anche di più) lo merita, soprattutto per il livello qualitativo del suono e delle produzioni oltre che per l’eclettismo messo in musica dal composer/producer di Austin, Minnesota. Provare per credere.
Federico Croci