Karmakanic – In A Perfect World

Karmakanic In A Perfect World Recensione

Difficile trovare le parole adatte per trattare dell’ultimo parto in casa Karmakanic. Quello che avrebbe dovuto esser semplicemente il ‘progetto parallelo’ di Jonas Reingold, bassista dei Flower Kings, nel corso degli anni ha acquistato una dimensione sempre più importante nella carriera del musicista svedese, tanto che oggi pare esser diventato il suo impegno principale, nonché una delle band preferite dai nostalgici del progressive rock originario dei Settanta. Del quale i Karmakanic riprendono tutto, ma proprio tutto, senza aggiungere alcunché di nuovo, eccezion fatta per la produzione al passo coi tempi e qualche passaggio chitarristico leggermente più pesante, che potrebbe indicare leggere influenze da parte di Dream Theater e Ayreon.

In A Perfect World” è il quarto album del gruppo, e segue a tre anni di distanza lo stupendo “Who’s The Boss In The Factory?“, opera che è stata il vero trampolino di lancio per Jonas e soci. Già, stupendo. Perché se è vero che i Karmakanic sono legati a uno stile ormai cristallizzato nel tempo, è altrettanto innegabile che nel loro ambito ci sappiano fare come pochi. E questo nuovo lavoro, pur non raggiungendo le vette del predecessore, è un altro bellissimo esempio di prog classico suonato in modo impeccabile. A partire dall’apripista “1969“, quattordici minuti equamente divisi fra Genesis e Yes, a colpire è la sensazione di equilibrio e luminosità che  il quintetto traspone in note, grazie alle ampie campate delle tastiere, alle linee vocali morbide del singer Goran Edman, ai continui cambi di tempo della sezione ritmica, agli assoli levigati della chitarra, agli intermezzi di pianoforte. Le sette composizioni sembrano voler indicare che, se i Marillion venivano considerati gli eredi dei Genesis, i Karmakanic potrebbero aggiudicarsi la palma di eredi dei Marillion. Il divertissement a metà strada fra metal e salsa di “Can’t Take It With You” è l’unico episodio a differenziarsi dal mood generale, tanto che potrebbe stare comodamente in un disco di Mike Patton o Devin Townsend, ma non per questo è poco riuscito, anzi serve a variare un po’ l’atmosfera.

Il progressive, lo dice il termine stesso, era nato come musica in divenire, e i suoi alfieri si erano dati il compito di sperimentare per rinnovare il rock. Ecco perché è difficile trattare dischi come questo, che oggi vengono definiti prog a causa del loro rifarsi a uno stile ben definito e delimitato nel tempo, ma che paradossalmente di ‘progressivo’ hanno meno di zero. Tuttavia a volte sono talmente belli che non si può fare a meno di consigliarli a tutti gli appassionati. E questo è il caso. Per fare un paragone contemporaneo: se l’anno scorso vi siete emozionati con “Artificial” degli Unitopia, non farete fatica ad amare pure “In A Perfect World”.

Stefano Masnaghetti

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