Le Corbeau – Mot On The Headlight

Le Corbeau Moth On The Headlight

Alcuni dischi possono essere difficili da digerire, non per questo però matematicamente, alla fine del processo di assimilazione, risulteranno vuoti.Nessun ascolto può considerarsi una perdita di tempo, tantomeno questo “Moth On The Headlight” del progetto di Øystein Sandsdalen (di cui qualcuno si ricorderà più facilmente per la permanenza come chitarrista nel gruppo norvegese indie rock Serena-Maneesh),chiamato Le Corbeau in onore dell’omonimo film del regista francese Henri-Georges Clouzot.

Per ‘le corbeau’, in francese, s’intende il corvo ma, grazie a questa pellicola, la parola è entrata nell’immaginario comune anche in riferimento ad un mittente anonimo di lettere; forse è proprio questa la dimensione in cui bisogna calarsi mentre si ascolta il lavoro, bisogna cercare di sentirsi corteggiati ed all’interno di un qualcosa di misterioso da cui, difficilmente, si riuscirà ad uscire avendo la piena chiarezza di ciò che è accaduto.Il disco dei Le Corbeau è, in una parola, torbido; le influenze sono sì innumerevoli (le citazioni stilistiche verso il noise, lo shoegaze e l’indie sono ben riconoscibili) ma poco amalgamate e nascoste tra loro in modo da divenire un valore aggiunto e non solo un recinto entro cui stare e da cui ci si ritrova impossibilitati ad uscire. L’appunto più grosso da fare alla band è appunto questo, la ricerca, sfrenata e frenetica, di creare musicalmente un ‘qualcosa’ di ancora non sentito; va sicuramente premiata la voglia di uscire dai soliti canoni ma non si può non riscontrare della difficoltà nell’approcciarsi a questo lavoro con l’idea di innamorarsene.

Tracce come l’apertura “Moth On The Headlight“, “1962” e “Another Moment When Time Stands Still” sono sicuramente i capitoli più riusciti dell’intero album, a differenza di “Mizogumo (Head In The Trees)“, pezzo da circa dieci minuti, che risulta ciò che è meno riuscito alla band in tre dischi. Una menzione particolare va fatta anche a “1959“, brano completamente strumentale, che racchiude dentro sé, tra chitarre e synth, una sorta di evocazione onirica e porta l’album verso una chiusura molto piacevole.

Un disco difficile da amare, quindi, ma assolutamente non difficile da ascoltare e digerire; sicuramente, per i non amanti del genere, anche solo imbattersi in questo prodotto dovrebbe essere davvero difficile e quindi, almeno per loro il ‘pericolo’ è scampato. Per chi invece, naviga (e molto) nelle torbide acque dello shoegaze, del noise rock e dello psycho pop, ascoltare questo disco potrebbe sicuramente essere un bel passatempo, anche se la fortuna di innamorarsene perdutamente spetterà a pochi eletti.

Federico Croci

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