Il titolo del nuovo disco della Mark Lanegan Band può esser fuorviante. “Blues Funeral“, e sorge immediata l’idea di trovarsi di fronte al consueto cantautorato intriso d’atmosfere di spettrale rock blues d’antan a cui il Nostro ci ha abituato nel corso della sua carriera solista. Oppure a qualcosa di ancora più arcaico, com’era stato “Hawk” (2010), stupendo omaggio alla tradizione musicale statunitense e ultimo album realizzato insieme a Isobel Campbell. Invece il successore del lontanissimo “Bubblegum” (2004) segue altri sentieri, e idealmente si riallaccia a quanto fatto da Lanegan con i Soulsavers, ossia presentare il vecchio armamentario del roots rock su sfondi che spesso e volentieri vengono riempiti da tastiere e, persino, da musica elettronica tout court. Il risultato complessivo è altalenante, anche se i punti di forza sono comunque maggiori rispetto a quelli di debolezza.
Sin dall’iniziale “The Gravedigger’s Song” s’intuisce che qualcosa è cambiato: il mood generale è il solito, non fosse per un battito sintetico che indica subito la voglia di rimescolare le carte e di approfondire quello che in passato l’ex Screaming Trees aveva solo abbozzato. Il contrasto fra questi due mondi contrapposti si fa quasi stridente nel cuore del disco: “Riot In My House” è rugginoso hard rock che rimanda ai Settanta, con Josh Homme (QOTSA) alla chitarra; la successiva “Ode To Sad Disco” è la pietra dello scandalo, ché se non fosse per una sei corde elettrica che fa capolino sarebbe limpido synth pop nella vena di Depeche Mode e, sì diciamolo pure, Pet Shop Boys (e la voce di Mark è quasi irriconoscibile), con in più un tocco nordico che deriva dal fatto di essere una sorta di rielaborazione di “Sad Disco“, traccia strumentale del musicista elettronico danese Keli Hlodversson; “Phantasmagoria Blues” sarebbe quello che promette il titolo, non ci si mettesse di mezzo un sottofondo new wave; “Quiver Syndrome” è praticamente arena rock arricchito da giochini di synth e coretti alla Dandy Warhols. Aggiungiamo pure che la produzione di “Harborview Hospital“, ricchissima di trovate sonore, potrebbe essere quella dei Coldplay (con le chitarre degli U2 però), e abbiamo ormai pienamente inteso che il qui presente è, senza alcun dubbio, il disco più bizzarro dell’intera carriera di Lanegan. Davvero poche le canzoni che non offrono sorprese, probabilmente solo la crepuscolare “Leviathan” e la folk ballad acustica “Deep Black Vanishing Train“, piazzate verso la fine dell’opera come a voler rassicurare l’ascoltatore. Non si sa fino a che punto però, perché a chiudere ci pensa “Tiny Grain Of Truth“, cavalcata mutante che ingloba parecchi elementi dal kraut rock e, in generale, dal pionierismo elettronico dei Settanta, quello spesso inscindibile dalla psichedelia.
Il musicista ha dichiarato che fra gli artisti che hanno influenzato questa sua ultima fatica sono presenti nomi come Joy Division e Roxy Music. Non si stenta a crederlo. “Black Funeral” è un buon tentativo di trovare nuovi sbocchi da parte di un grande artista che, con “Bubblegum”, rischiava di iniziare ad apparire scontato. E chi ha scritto “Whiskey For The Holy Ghost“ non può permetterselo. E infine, nonostante alcuni squilibri dovuti alle molte contaminazioni, la maggior parte dei brani dell’LP risulta convincente e scava solchi nella memoria. Non è di certo il suo capolavoro, ma Lanegan ha ammesso che ascolterebbe più volentieri “Black Funeral” rispetto ad altri dischi scritti nel passato, e l’onestà va sempre premiata.
Stefano Masnaghetti
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