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Ma cosa è successo ai Mudvayne? Se la presunta parabola discendente culminata col precedente Lost and Found poteva essere vista come una voglia legittima di cambiare e di evolversi, The New Game testimonia uno stato di forma alquanto precario, trasformando in realtà i timori che aleggiavano attorno alla band di Peoria (Illinois).
Portati alla ribalta grazie all’esplosione americana (e poi mondiale) del nu metal di fine/inizio millennio, e considerati erroneamente gli Slipknot di serie b, i Mudvayne hanno da tempo smesso costumi e trucchi di scena per mettere in risalto la propria musica. Non che ce ne fosse estremo bisogno, visti i buonissimi risultati di L.D. 50, disco figlio proprio di quel periodo, ma come gli stessi Slipknot hanno insegnato, bisognava saper rinnovarsi e cercare nuove soluzioni. I nostri non hanno fatto nient’altro che ammorbidire e rendere sempre più appetibile (commerciale), disco dopo disco, il proprio stile, assecondando il nu metal degli esordi a ciò che veniva richiesto dal mercato. Se questo ha permesso loro di sopravvivere dignitosamente dopo quel periodo d’oro, dall’altro lato ha portato la band a uniformarsi a un certo rock americano, estremamente radiofonico e facile all’ascolto, culminato in The New Game.
Insomma, intenzioni corrette messe all’opera in modo non del tutto convincente. Il risultato è un album dove la durezza delle chitarre e del cantato si scontrano spessissimo con frangenti pacati, quasi malinconici, seguendo pedissequamente un songwriting che svilisce le qualità tecniche/compositive sopra la media di questi musicisti, cosa che probabilmente ha dato loro meno frutti tra la massa di ragazzini desiderosi di musica “dura ma semplice”, e che non accontenterà gli stessi ormai cresciuti e maturati. I Mudvayne giocano ora a fare i “teneroni”, percorrendo il cliché della strofa gentile e del ritornello robusto, annacquando il tutto con un rock scontato, che saremmo in grado di tollerare in altre band del circuito mainstream americano, ma da loro no. Undici canzoni lineari e senza picchi, dove persino il basso di Ryan Martinie, vero motore della band, sembra privo delle linee imprevedibili che lo hanno contraddistinto fino ad oggi.
Ai Mudvayne va il merito di aver capito la necessità di slegarsi da una certa immagine che ha inghiottito tutti in un modo o nell’altro, anche gli stessi Slipknot, che ormai di nu metal non hanno più niente (seppur con esiti decisamente migliori). Il risultato però è abbastanza deludente.
Stefano Risso