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Che il classico post rock, quello nato e cresciuto a Chicago, abbia da tempo esaurito la sua spinta propulsiva, è cosa sotto gli occhi di tutti. Si tratta, peraltro, di un affievolimento creativo del tutto naturale. Escono ancora bei dischi, pensiamo soltanto all’ultima opera dei padri Tortoise, quel “Beacons Of Ancestorship” che li ha riabilitati dopo una manciata di lavori piuttosto anonimi. È chiaro però che oggi certe sonorità, nate per rinnovare vecchie strutture (prog?), rischiano di diventare semplice routine, finendo col tradire il loro primo e vero significato. Allora si corre ai ripari, come stanno facendo gli inglesi 65daysofstatic (d’ora in poi semplicemente 65days): dopo esordi piuttosto canonici, la band di Sheffield si è via via addentrata nei meandri dell’elettronica, soprattutto con “The Distant and Mechanised Glow of Eastern European Dance Parties”, EP di due anni fa che li vedeva alle prese con beat simil rave e campionamenti come se piovesse.
Il nuovo album non smentisce, anzi afferma con ancor più prepotenza queste ‘sperimentazioni’ soniche, abbattendo un bel po’ di barriere fra post rock e suono puramente sintetico. Almeno, cercando di abbatterle, perché troppe cose non convincono del disco.
Di “We Were Exploding Anyway” sorprende soprattutto la foga danzereccia. Sembra che i 65days abbiano voluto sfornare una sequenza di brani (quasi) tutti potenzialmente ballabili nei club più ‘cool’. È il loro lavoro più diretto, basato quasi esclusivamente sulla potenza di sfondamento del ritmo e delle botte di drum machine. Il singolo di lancio, “Weak4”, strano connubio fra big beat alla Prodigy/Chemical Brothers e rimasugli post, è un biglietto da visita più che affidabile per l’intera emissione. Il resto, infatti, segue queste due direttive principali. Pochi i pezzi che mantengono uno stretto legame con lo stile che fu: su tutti “Piano Fights”, melodico, arioso e dalle chitarre quasi mogwaiane, e la litania in crescendo di “Come To Me” (con Robert Smith dei Cure alle ‘guest vocals’). Le altre composizioni avanzano a colpi di adrenalina e synth. La tribal techno di “Dance Dance Dance” ricorda una versione de – evoluta del math rock, ed un effetto simile, anche se meno esasperato, sortiscono “Mountainhead” e “Crash Tactics”; “Go Complex” serve a scaricare elettricità statica, mentre le conclusive “Debutante” e “Tiger Girl” rallentano i ritmi per concentrarsi su una sorta di minimalismo ambient, anche se la prima lascia intravedere barlumi di IDM anni Novanta e l’altra monta in un crescendo techno – dance con piglio da rave.
Detta così sembrerebbe di aver a che fare con un disco eccellente, ricco di idee, importante. Non è proprio così. È vero che i 65days si son spremuti le meningi per creare qualcosa che vada al di fuori del seminato e suoni fresco e innovativo. Ma la semplice sovrapposizione di elettronica, per di più abbastanza datata, e soluzioni post rock, anch’esse non proprio di primo pelo, non sembra molto convincente. Tanto più che le due componenti sono in disequilibrio, e i campionamenti finiscono per soffocare le chitarre, quando ci sono. Così finisce che “We Were Exploding Anyway” sembri un riciclaggio di vecchia roba che si vuol spacciare per nuova, con il rischio, tra l’altro, di aver vita piuttosto breve; perché, oltre al piacere per lo stordimento momentaneo (che si prova, inutile negarlo), non sembra poter offrire molto altro. Il futuro del (post) rock non passa di qui.
Stefano Masnaghetti