http://www.coheedandcambria.com/
http://www.roadrunnerrecords.com/
Basterebbero anche solo i Coheed and Cambria per avere di che sparlare su internet per anni a venire: sono i re degli sfigati, no sono dei geni, ma canta come quello dei Rush, sssèèè non hanno un mignolo dei Rush, ma poi è prog, sì no, e l’emo dove lo metti, il batterista dei Dillinger Escape Plan è un traditore, ma pubblicano i dischi al contrario?
Insomma, bene o male in questi ultimi anni la band newyorkese si è guadagnata la sua fetta di notorietà; al di là delle facili ironie sulla capigliatura del cantante o sul fare dischi prog a tema fumetto sci-fi, il gruppo è comunque uno dei pochi ad avere un sound riconoscibile e un’identità precisa.
Dopo il malloppo live autocelebrativo “Neverender” (2009), la band cerca di fare il punto della situazione: il nuovo “Year Of The Black Rainbow”, prequel della saga “Armory Wars”, si propone come il disco più melodico e accessibile. Ce la mettono proprio tutta, ma non mancano i problemi. Parte “The Broken”: dura meno di quattro minuti, ne sembrano passati otto e ne rimane in testa uno da tanta roba cercano di metterci dentro. Però c’è la produzione di Atticus Ross (già al servizio di Nine Inch Nails e Jane’s Addiction) a invogliare l’ascolto: nitida e potente, bassi da rivoltare l’autoradio, accattivante ma non troppo leccata. Il batterista Chris Pennie finalmente si scatena nella Marsvoltiana “Guns Of Summer” e le cose vanno meglio: evidentemente quando cercano di non strafare trovano la loro dimensione migliore. In “Far” il beat elettronico sostiene a manetta la linea vocale estremamente pop, simbolo di questo lavoro decisamente melodico.
La band cerca di scrollarsi di dosso le parti meno appetibili del loro bagaglio, come certi eccessivi squittii di Claudio Sanchez (anche se a volte proprio non ce la fa a trattenersi) o le composizioni troppo elaborate; non essendo loro né i Rush, né i Tool, forse è meglio così. Non riescono a imbroccare pezzi memorabili, ma fanno di tutto per rendere più riconoscibili le loro canzoni piazzandoci ritornelli ovunque (Made Out Of Nothing’, seguono il manuale aggiungendo pure il pezzo semiacustico (Pearl Of The Stars) con tanto di assolazzo anni ’80, rimangono fedeli alla loro linea (In The Flame Of Error). Non tutte le ciambelle riescono col buco, con la conclusiva title track ci si addormenta, ma è già molto meglio che in passato.
Se il loro intento era produrre un disco più facile e accattivante per trovare nuovi sostenitori, ce l’hanno fatta. Basta che non si lamentino se poi i fans accaniti vanno a cercarli a casa loro accusandoli di essere diventati i 30 Seconds To Mars.
Marco Brambilla