[Progressive Rock] Devin Townsend Project – Ki (2009)
A Monday – Coast – Disrupt – Gato – Terminal – Heaven Send – Ain’t Never Gonna Win… – Winter – Trainfire – Lady Helen – Ki – Quiet Riot – Demon League
http://www.myspace.com/devintownsenddtb
http://www.insideout.de
Devin Townsend è sicuramente fra i personaggi più controversi dell’ultima decade e oltre. C’è chi lo reputa un vero e proprio genio della musica moderna, in grado con i suoi innumerevoli progetti solisti o semi solisti di risollevare le sorti dell’arte di Euterpe. Altri, invece, lo criticano aspramente proprio a causa della sua eccessiva bulimia compositiva e della sua immagine tutta “genio e sregolatezza”, che, secondo costoro, nasconderebbe un artista enormemente sopravvalutato. La verità, almeno in questo caso, sta nel mezzo: l’ex Strapping Young Lad non è certamente il nuovo Beethoven, ma è comunque un musicista e compositore dalle notevoli capacità, ben al di sopra della media sia in ambito strettamente metal sia nel rock tout court.
La dimostrazione del suo valore sta tutta in questo dischetto, primo di una tetralogia nella quale Heavy Devy si accompagnerà con musicisti sempre diversi, per poter abbracciare stili ed influenze di volta in volta differenti (si parla di un capitolo conclusivo interamente ambient).
“Ki” racchiude tutto quello che non ti aspetteresti mai da uno come lui: canzoni rilassate, dai toni tenui e trattenuti. La componente metal è stata drasticamente ridotta rispetto al passato, e a trionfare nei 13 brani del cd sono piuttosto le chitarre acustiche, un uso delle tastiere ai confini del post rock, voci pulite sia maschili sia femminili, un basso che pompa groove da ogni corda, ballad lente e pacate, note lunghe e distese. La tensione c’è ancora, latente in molti anfratti del disco, ma non viene mai fatta esplodere completamente, neppure nei crescendo più veementi di “Disrupt” e “Gato”, unici episodi nei quali l’impronta del vecchio Townsend è ancora maggioritaria. Per il resto, il nuovo amore si chiama funk, e si manifesta nel basso portentoso di Jean, imprescindibile nell’economia di pezzi quali “Coast”, “Ain’t Never Gonna Win…” ed “Heaven Send” (quest’ultimo il migliore dell’album, via di mezzo tra progressive a tinte funky, derapate metal e arrangiamenti orchestrali). In “Lady Helen” spunta addirittura un piano, mentre “Terminal” è un malinconico addio intonato dalla chitarra e da lievi percussioni. Un discorso a parte merita “Trainfire”, altro highlight di “Ki”: inizio rock’n’roll anni Cinquanta, con Devin a metà strada fra Elvis e Jerry Lee Lewis, e improvviso mutamento di pelle che porta a uno sviluppo degno dei Mr. Bungle di “California”.
“Ki” è un passo coraggioso nella carriera dell’eclettico artista canadese. Un volto nuovo, intimista e quasi romantico. Messe da parte le derive più schizoidi il suono si è fatto più lineare, per certi versi più semplice. Anche in fase di produzione, infatti, le sovraincisioni sono state limitate al massimo, proprio per salvaguardare la nuova idea di snellezza musicale. Così le canzoni prendono vita da piccole cellule melodiche che, con procedimento quasi minimalista, si ripetono, variano e si sviluppano lentamente, senza cesure nette (da qui la componente ambientale e quasi “post” dell’opera). Probabilmente alcuni fan della prima ora (sì, sto pensando a “City”) resteranno delusi. Tuttavia “Ki” è un lavoro sincero e ben fatto, un’ottima sorpresa da parte di un musicista che si dimostra molto più imprevedibile in questo modo piuttosto che sfornando l’ennesimo disco di metal “alieno” e “disturbante”.
Stefano Masnaghetti