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È facile affibbiare la definizione ‘progressive rock’ ad un determinato disco e sentirsi con la coscienza a posto. Eppure, fermandosi a riflettere un attimo, ci si accorge che questa etichetta funge spesso da contenitore di comodo e risulta largamente insufficiente a delimitare uno stile, a scavare in profondità nello stesso, a sottolinearne le peculiarità. Questo è certo un difetto di tutte le catalogazioni di genere, ma nel nostro caso il termine ‘progressive’ è ancora più sfuggente di altri. Perché, storicamente, c’è stato quello avanguardista e cervellotico di King Crimson e Van Der Graaf Generator, quello sperimentale ed ‘engagé’ degli Area, quello magniloquente e spettacolare di Yes ed ELP, quello in combutta con il jazz della scuola di Canterbury, quello cupo ed esoterico dei Magma, e ancora declinato con l’hard rock da parte di Rush e affini, con il dark sound inglese ad opera di Atomic Rooster e Black Widow, etc.
Quelli sopra sono solo alcuni esempi. Se ne potrebbe scrivere un trattato, magari allargando il raggio d’azione ai gruppi tedeschi di inizio anni Settanta, ma non è questo il luogo per farlo. L’introduzione serve solamente a mettere in luce da quale genere di prog siano ispirati gli Unitopia, ossia quello neoclassico e barocco che ha nei Genesis gli attori principali, e nei Marillion e compagine neo – prog assortita i devoti portavoce della tradizione. In realtà l’ensemble guidato da Mark Trueack e Sean Timms non si adagia pedissequamente sul canone imposto dalle band sopraccitate, essendo capace di variare moltissimo la sua proposta e di inglobare parecchie altre influenze; ma è altrettanto vero che il gusto innato per il melodismo e una propensione per gli arrangiamenti ‘classici’ (cfr. “The Power Of 3”) fa sì che la musica contenuta nel terzo album del complesso sia chiaramente inseribile in quel filone.
Rispetto a “The Garden”, il mostruoso doppio cd di due anni orsono, “Artificial” è più scorrevole e meno pesante. La minor prolissità facilita la sua assimilazione in tempi più rapidi, senza però sacrificare nulla in termini di cura degli arrangiamenti e in complessità delle strutture. Di sicuro si nota una maggior snellezza della forma, e certi effetti che nel predecessore si ottenevano per accumulazione qui sono assenti. Verrebbe da dire che a questo disco manchi quell’opulenza sonora che aveva fatto di “The Garden” un vero e proprio caso nel movimento neo – progressive. Ma il nuovo lavoro ha dalla sua dei pregi che sopperiscono a tutti questi presunti difetti. Ad esempio, grazie anche all’inserimento in formazione del sassofonista Peter Raidel, è presente una propensione per il jazz e la fusion che nel precedente era meno marcata. E che spesso riesce ad essere davvero un valore aggiunto alla formula sonora degli australiani, spirando come leggera brezza rinvigorente in molte tracce di “Artificial”, title – track compresa. Per il resto sono gli Unitopia che conosciamo, e che ci deliziano con una mini – suite di eccelsa fattura, “Tesla”, 13 minuti nei quali accade davvero di tutto, dall’introduzione sinfonica al ricamo tastieristico al cesello di violino allo stacco di sax, in un incessante alternarsi di cambi di tempo; si citano decine di gruppi, fra cui Pink Floyd, Flower Kings, Gentle Giant e i Genesis stessi. Stratagemmi compositivi che si son sentiti centinaia di volte, ma la bravura è ugualmente da applausi. E questa considerazione può valere per l’intera opera.
Simili, per discendenza e formazione, agli inglesi IQ, gli Unitopia si fanno però preferire a questi per una maggior dose di fantasia e una miglior capacità di svincolarsi dai venerati maestri. Per chi aveva amato “The Garden”, e per tutti i prog maniaci in generale, “Artificial” potrebbe essere il disco dell’anno.
Stefano Masnaghetti