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“Sunglasses Under All Stars” è l’incontro di quattro musicisti affermati (Folco Orselli, Stefano Piro, Claudio Domestico e Alessandro Sicardi) al crocevia delle loro rispettive esperienze, un album cantato in inglese, una lingua nuova per tutti (e si sente), vista come ponte per l’Europa o, per parola dello stesso Orselli, semplicemente più immediata nel rendere il panteismo di questi testi, dove invece le prove dei singoli cantautori, più vicine alla denuncia sociale, trovavano naturale sbocco nella loro lingua madre.
C’è una scena milanese che vive di provincialismo. E’ una scena dove i cantautori rimasticano il vecchio Tom Waits e il defunto Jeff Buckley convinti di regalare novità. Una scena in cui, nel duemila e dieci, si parla ancora di poesia scimmiottando Bukowski e di psichedelia citando gli “annisettanta”, così, tutti, per non sbagliare.
Da questa scena arrivano gli Arm On Stage, che si chiudono in un casolare fra il Piemonte e la Liguria sul Passo del Sassello per dieci giorni e ne escono con dieci “improvvisioni”, neologismo da loro coniato per le loro improvvisazioni visionarie, neanche fossero i Grateful Dead sotto LSD.
Questo disco è impossibile da amare, nonostante le quattro entità da cui è scaturito abbiano, singolarmente, regalato almeno qualche episodio godibile alla scena non dico italiana, ma milanese di sicuro. E’ un pastone denso di suoni tutti uguali che parte in sordina con echi alla Satie (anche Satie va molto di moda nella scena di cui sopra) dell’intro di “The Guardian” e arriva col minimalismo di “Go On!” e “Get Back”, ma che, ciononostante, di minimalista non ha nulla: ci sono dentro chitarroni, voci ricalcate su Vedder e Buckley senza la forza né dell’uno, né dell’altro, voglia di stupire con la tecnica e i tempi dispari, e molto, molto ego.
Sarà che queste cose sono superate in tutto il mondo tranne che qui, sarà che per “sperimentazione” si possono intendere temi un po’ più evoluti rispetto al “ritorno alla natura” e all’improvvisazione (o “improvvisione”) libera, già inflazionati dal progressive per poter sembrare nuovi, ma in questo album di pezzi che si salvino, che non sembrino tirati su col minimo sindacale degli sforzi, ce ne sono veramente pochi, e il resto è noia, o già sentito, che è la noia peggiore.
Un’ennesima prova del provincialismo spinto della nostra metropoli, o se preferite dell’Italia in generale.
Francesca Stella Riva