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Ah Pietro Gabriele, che volpe che sei. Sorvolando su inutili ovvietà come ‘Peter Gabriel fa un disco ogni 10 anni ormai’ o ‘sì i dischi di cover sono notoriamente delle sole ma per lui chiudiamo un occhio’, il progetto Scratch My Back ha diversi limiti concettuali ma anche enormi picchi artistici. Il piano di rilancio dell’artista inglese consiste in un disco di cover (copertina stratosferica, tra l’altro) a cui seguirà un disco tributo (I’ll Scratch Yours) dove gli artisti ‘coverizzati’ in Scratch My Back ricambieranno la cortesia.
La tracklist è abbastanza furbetta, dato che si divide tra una piccola parte di artisti ‘classici’, se vogliamo coetanei di Peter, e una bella fetta di artisti più giovani ma già assolutamente di culto; insomma, in un modo o nell’altro una garanzia. Le orecchie iniziano a sudare per l’emozione: ci si aspetta ovviamente grandi cose, e sia il cervello che il cuore desiderano essere saziati. Il cervello, pronti via, si becca una mezza delusione: non c’è una rielaborazione troppo sofisticata dietro i brani della raccolta. Niente sperimentazioni, niente elementi di world music, niente basso magico di Tony Levin, figurarsi ganci al periodo progressive nei Genesis…l’idea è molto più radicale: si richiama Bob Ezrin e tutti i brani li si fa voce+pianoforte+orchestra.
Parte ‘Heroes’ e sì, è impeccabile, ma sembra di iniziare a vedere un film dove già dai primi minuti si capisce tutto. Viene da chiedersi se Peter abbia volutamente ridotto all’osso ‘The Boy In The Bubble’, togliendole proprio tutte le influenze di musica etnica una volta a lui tanto care. La realizzazione, beninteso, è a i massimi livelli: ogni brano è una lezione di canto dove ‘estensione’ e ‘interpretazione’ sono le parole chiave. Solo che, con l’ orchestra sotto, pezzi come il ‘trip hop acustico’ degli Elbow hanno ora un feeling un po’ mieloso da colonna sonora di Hollywood (e guarda caso c’è pure ‘Philadelphia’). Paura. Che Wall-E e Babe Maialino Coraggioso gli abbiano fatto male? Finiamo nelle lande di Phil Collins?
Certi pezzi poi vengono dritti al punto (tipo ‘Flume’, emozionante il finale), altri (‘Listening Wind’) anche se non certamente lunghi si mordono un po’ troppo la coda.
Quando tutto sembra perduto, ecco che arrivano le bombe. Anche se è ridicolo da scrivere, ‘The Power Of The Heart’ è più bella dell’originale: Peter la dilata, si prende più tempo, in modo da poter interpretare e scandire meglio il testo. Se la versione di Lou Reed suonava più nervosa e spigolosa, qui ogni parola pesa come un macigno. Sempre in tema romantico, viene data una seconda giovinezza alla più grande canzone d’amore sconosciuta di sempre: ‘The Book Of Love’ dei Magnetic Fields. Scelta anche come singolo, ha il giusto equilibrio tra sinfonia e melodia che la può far consacrare come un classico senza tempo. Non è la prima volta che Peter la propone, il che indica quanto lui stesso ci creda. Finalmente si scatenano vere emozioni, il cuore è appagato, e ‘My Body Is A Cage’ degli Arcade Fire si guadagna la palma di miglior pezzo nella sua rielaborazione assolutamente raggelante, con un pianoforte da brividi: ‘My body is a cage/that keeps me from dancing with the one I love/but my mind holds the key/I’m standing on the stage/of fear and self doubt/it’s a hollow play/but they’ll clap anyway’…Peter va giù, sfiora il baritono e le orecchie vibrano letteralmente.
Ansia pura, bravo Peter. Risultati migliori, insomma, sui pezzi dei ‘giovani’ come quelli di Regina Spektor (la sinfonia più conturbante del disco) e Radiohead (con loro un ottimo finale al limite del cabaret).
Alla fine, un progetto parecchio ambizioso che non lascia scampo: o si finisce ipnotizzati o ci si annoia a dismisura.
Marco Brambilla