Gli Sleigh Bells, band americana di Brooklyn, tornano sulle scene dopo il successo del primo album, “Treats“, nel 2010. Il duo, composto dal produttore/chitarrista Derek Edward Miller e dalla cantautrice Alexis Krauss, aveva sorpreso ai tempi per il cantato pulito della cantante (distorto poi tramite filtri), accompagnato da chitarre ruvide ed elementi di elettronica: un mix che richiamava fortemente i britannici Crystal Castles.
Ora, dopo quasi due anni, il duo noise pop torna sulle scene con la sua seconda fatica, “Reign of terror“, uscito lo scorso 21 febbraio per la Mom+Pop Records. Il disco si presenta come una evoluzione rispetto al precedente: pur mantenendo ben salde le radici dance punk della band, i due qui ricercano quello che lo stesso chitarrista Miller ha definito in un’intervista “Party music”- ovvero una nuova veste, decisamente più pop, con la quale rivestire le proprie creazioni, senza rinunciare all’energia e alla carica dei primi pezzi.
Questo si può già vedere distintamente nei primi due brani svelati dal duo americano: “Born to lose“, primo singolo estratto, si presta totalmente ad un cantato paranoico ed evanescente, quasi da filastrocca dark, mentre la lentezza quasi esasperante dei giri è un aperto invito verso i remix dubstep (cosa peraltro già fatta per i loro pezzi); “Comeback kid“, seconda canzone estratta, è l’esatta esegesi dell’anima bipartita del duo: drum machine isterica, accompagnata da riff furiosi di synth e chitarre pesanti, a far da contrasto ad un cantato curato, che ricerca il Pop come repertorio di melodie, e che utilizza le dinamiche dell’R’n’B per cavalcare sopra i moti tumultuosi generati dalla parte strumentale.
C’è da fare un appunto, in ogni caso. Se è vero quindi che su questo lavoro si ripercuotono i due lati degli Sleigh Bells, con l’ascolto complessivo del disco uno di questi si denota come predominante: è quello dei toni più seducenti e dei motivetti catching, che costringono chitarre e synth a pulirsi dei suoni distorti e a privarsi dei volumi, relegate all’accompagnamento della voce. Difatti, se è vero che ci sono ancora una “Demons” e una “Crush” a tenere alti i volumi e richiamare il duo di “Infinity guitars“, è anche vero che sono quasi dei piccoli intermezzi, lasciati in un sipario ormai votato a ben altri toni, testimoni (tra gli altri) epsiodi come “End of the line“, “You lost me” e “Never say die“.
Con queste premesse, viene logico chiedersi se la sperimentazione pop già richiamata da Miller non sia invece un deciso cambio di stile intrapreso dalla band.
Andrea Suverato
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