“Brothers” fece storcere il naso ad alcuni fan della prima ora dei Black Keys. Troppo soul motown pigiato dentro al classico stile del duo di Akron, troppa americana che circolava un po’ in tutti i pezzi, il sentore di aver a che fare con una sorta di spin off (ovviamente meno riuscito) del solista di Auerbach uscito l’anno prima, tanto blues un po’ irrisolto. In realtà quel disco non era poi così male: la band cercava di aprirsi nuove strade e guadagnare nuovi fan, e qualche episodio era anche riuscito. Ascoltandolo a distanza di quasi un anno e mezzo, però, le pecche sopraelencate vengono tutte a galla.
Tuttavia, se la si vede dal lato prettamente commerciale, “Brothers” è servito eccome: tre Grammy Awards vinti e più di un milione di copie vendute sono eventi che, ai tempi di “Thickfreakness” (2003), solo qualche mattacchione avrebbe pronosticato possibili per i Black Keys. E invece.
Così, dopo aver preso in pugno il centro della ribalta mediatica, con “El Camino” Patrick Carney e Dan Auerbach tornano all’antico, a quello che han sempre saputo far meglio. Garage rock intriso di blues dalle chitarre affilate e dai suoni minimali, più qualche coro ed effetti sonori vintage sparsi a far da contorno. I Black Keys in un guscio di noce.
Il nuovo lavoro, quindi, assomiglia molto ai primi dischi dei Nostri, con le uniche (notevoli) differenze di una produzione più pulita e di una maggiore cura nella ricerca del ritornello killer. “Lonely Boy” ronza come ai vecchi tempi, propulso dai battiti scarni della batteria e dal secco riff della sei corde, però il coro femminile riempe di orecchiabilità pop questo numero di garage blues da manuale. “Dead And Gone” presenta gli unici accenni ai Clash (periodo “Sandinista“) di tutta l’opera. Già, i due avevano detto che “El Camino” avrebbe avuto, quali influenze maggiori, quelle dei Clash e dei Cramps; in realtà la loro presenza non si sente più di tanto. Forse Dan e Patrick intendevano piuttosto avvertire che sarebbe stato un LP diretto e senza molti fronzoli. Così è. “Gold On The Ceiling” esibisce handclapping, il solito coro d’abbellimento, distorsioni desertiche e un assolo fiammeggiante: garage lavato nel southern. “Little Black Submarines” è quello che non t’aspetti, ballata country – folk che cita “Stairway To Heaven” dei Led Zeppelin e poi s’imbizzarisce in una coda elettrica. A completare il quadro ci pensano il rock Seventies di “Money Maker“, lo stomp sibilante di “Run Right Back” e la calda atmosfera estiva di “Stop Stop”, unico brano dalla chiara impronta soul che potrebbe far ricordare “Brothers”, qui però più a fuoco e dall’assolo di pregevole fattura.
Due o tre filler non inficiano affatto la riuscita finale di “El Camino”. Allo svanire del 2011 i Black Keys sono il gruppo garage più importante del mondo e potrebbero crescere ancora. Forse i capolavori rimarranno i primi, ma è giusto che chi ha ben seminato raccolga in abbondanza.
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