I Cave Singers, da Seattle, sembravano relegati, fino ad un album fa, al ruolo di ipotetici fratelli minori dei Fleet Foxes, magari un po’ più violenti, le loro voci più roche, ma per il resto appartenenti allo stesso mondo, oltre che alla stessa città.
Con “No Witch”, invece, fanno uscire il loro primo disco interamente rock, per loro stessa definizione, scegliendosi come loro territorio, oltre a quello dei già amati Creedence, Springsteen e soci, anche quello di un certo mississippi blues caro, spesso, a chi inizia a sporgersi oltre la finestra del folk e del country: qualcosa fra R.L.Burnside e i suoi lavori con i Blues Explosion e un John Lee Hooker.
L’introduzione è comunque in pieno stile The Cave Singers e i primi due pezzi, “Gifts and the Raft” e “Swim Club”, sono un ideale proseguimento di “Welcome Joy”: le stesse premesse per quell’atmosfera bucolica fino ad oggi marchio di fabbrica di questa band.
Da”Black Leaf”, e soprattutto dalla successiva “Falls” in poi però le carte in gioco cambiano e i pezzi diventano incalzanti, scuri: finalmente la mano di Randall Dunn (Black Mountain, SunnO))) ) si fa sentire in tutta la sua importanza stilistica e il paesaggio dei dintorni di Seattle, fatto di abeti e volpi rosse, si incendia di tribalismi, tamburi, danze, corse a perdifiato segnate da chitarre ritmiche ossessive e armoniche a bocca suonate fino a perderci i polmoni.
“Haller Lake”, esattamente a metà, e la morbidezza corale di “Distant Sures” ci offrono gli ultimi sprazzi di luce prima che l’andamento ossessivo e quasi messianico del cantato di “Faze Wave” e il garage liberatorio di “No Prosecution If We Bail” chiudano in bellezza un disco inquieto, che sa di metamorfosi ma anche di consapevolezza e maturità.
Francesca Stella Riva