Parlare di comfort zone al lancio di un nuovo album è uno dei nuovi vizietti degli artisti. “Uscire dalla comfort zone”. Alle porte di un nuovo capitolo discografico la maggior parte delle band cerca di propinarci questo innesto d’idea per convincerci che si tratti di un rischio, se non addirittura di una liberazione nel nome della propria arte. Ma quante volte le band la abbandonano davvero? Una cosa è certa: i Gaslight Anthem, con “Get Hurt”, l’hanno fatto, e non solo a parole. L’unico problema è che hanno anche tentato di saltare a piedi uniti in una nuova futura comfort zone, solo prodotta meglio. Affidarsi ad un abile produttore come Mike Crossey, studiare le grandi band che sono riuscite a dare una svolta al proprio sound (parola di Brian Fallon) non sembrano esattamente le scelte di chi vuole rischiare tutto nel nome della propria anima creativa. Come accadde già nel precedente album, i titolo lunghi, complessi e tendenti al citazionismo – tipo “Here’s looking at you, kid”, magnifica e criptica battuta da Casablanca – non trovano più posto, e ben otto titoli su dodici sono formati da due sole parole. Anche la cover, solitamente vintage, diventa un logo minimale (un cuore rovesciato) in due soli limpidi colori. Che altro? Ah sì, nessuna venatura punk, ma questo era ovvio fin dal principio. Niente più suoni grezzi e sporchi dell’era SideOneDummy e largo spazio ad una produzione impeccabile, ancora più di quella di “Handwritten”, il quarto album della discografia che sancì l’approdo su major label. In fondo se si riesce a scrivere una recensione di questo LP senza paragoni con altri artisti vuol dire che l’impellente bisogno di Fallon e soci di liberarsi di alcuni fardelli è stato soddisfatto.
Il bilancio è chiaramente positivo, perché il disco è potente e trova nelle pesanti schitarrate di “Stay Vicious” e “10.000 Years”, e nelle malinconiche linee melodiche di “Get Hurt” e “Break Your Heart” degli spiazzanti punti di forza. Perché bisogna ammettere che la maturità in fatto di brani alt-rock e ballate è ormai arrivata ad un punto altissimo. E anche il lato romantico, irrinunciabile per la fanbase della band, è granitico, nonostante non sia più supportato dalle collaudate strutture derivate per astrazione dai precedenti decenni. Proprio la titletrack, secondo singolo estratto, è uno dei vertici del viscerale percorso del leader della formazione del New Jersey. Siamo tutti un po’ qui per “farci del male”, con questo disco. I carnivori fan della prima ora pronti a digrignare i denti in memoria del punk e dei riff impossibili da dare in pasto alle radio, forse anche illusi dalla copertina di strummeriana memoria dell’ultimo live album. Gli empatici romantici pronti a crogiolarsi nei propri tormenti, cogliendo tutta l’intimità di un album abilmente mascherato. E più di tutti i Gastlight Anthem, esposti a tutte le incompresioni del caso e alla mercé del mainstream, pur restando sul sedile posteriore di un vecchia auto americana.
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