C’è stato un momento in cui hanno iniziato ad irritarci tutti. Dopo l’entusiasmo di inizio secolo per il recupero del ‘garage rock’, tutti i gruppi con ‘The’ hanno iniziato a starci sulle balle. The Hives, The Strokes, The White Stripes etc etc. Qualcuno ha avuto più successo di altri, qualcuno si è sciolto, qualcuno si è evoluto. I The Strokes appartengono sicuramente all’ultima categoria. Sempre tutti scimmiati per qualsiasi cosa sia retro e vintage (l’ultima copertina è letale, in questo senso), i ragazzi continuano a perseverare col loro rock dai beat immediati e dalle linee vocali melodiche, riuscendo pure ad ampliare le sperimentazioni del precedente “Angles” (2011).
Se quindi “All The Time” è il classico rockettino coi riffettini che tutti si aspettano da loro, l’opener “Tap Out” è un tale tuffo negli anni ’80 che potrebbe essere una sigla di Miami Vice. E in linea di massima sono più interessanti le boccate d’aria fresca, rispetto alle formule trite e ritrite. Oddio, il recupero delle sonorità anni ’80 non è certo la mossa più coraggiosa di questo mondo (è una scappatoia ormai consolidata da una decina d’anni), ma è indubbio come un’incalzante “One Way Trigger” abbia più spinta e dinamicità di una trita e ritrita “Chances”. In generale meglio la prima metà del disco, con una “Welcome To Japan” bella secca e piena di riff sinuosi e il sasso lanciato a tutta velocità “80’s Comedown Machine”. La parte centrale soffre per dei lenti poco ispirati ma la band è stata comunque abile a trovare nuove soluzioni senza compromettere il proprio sound. Non brillano come ai fasti del debutto ma si fanno perdonare per provarci con personalità.
Marco Brambilla
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