L’interessante (fino ad ora) carriera dei Thirty Seconds To Mars si schianta contro il muro della supponenza. Il nuovo disco, vago concept costruito con gruppi di canzoni legati ai temi del titolo (si intuisce dal pezzo che ripete 70 volte “all we need is faith”), dirige la band in territori elettronici e synth pop, lasciando indietro le chitarre e, in generale, un sound decente. L’album soffre pure di una sorta di sdoppiamento della personalità che lo porta ad avere sia mire grandiose (orchestrazioni, cori, paesaggi etnico/mistici) che pulsioni minimal (elettronica, freddi beat digitali). Un disturbo bipolare che lo fa essere pop (canzoni brevi, strutture semplici, ritornelli orecchiabili) ma non troppo, soprattutto per una produzione diverse volte ‘pesante’ a colpi di suoni elettronici distorti e bassi saturi.
Quando va bene sembrano i Wolfmother (il che è tutto dire), come il rock dal basso friggi casse di “Conquistador”, quando va male sembrano demo di Katy Perry. “City Of Angels” sembra il peggio degli U2 super-zuccherosi-amici-di-tutti-post 2000 e, in generale, il disco cerca di inseguire le sonorità più ‘tecnologiche’ degli ultimi Muse ma no grazie, ci bastano loro. Tutto quello che di interessante avevano creato i 30 Seconds To Mars ora spazzato via dalla noia.
Marco Brambilla
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