Su Wikipedia si legge che “Pink Flag” (1977), primo disco dei Wire, è stato “forse il più originale debut album della prima ondata del punk inglese”. Vero. Per lo meno, pensando a quel determinato periodo storico e a quella particolare situazione, si è quasi obbligati a citare tale opera quale miglior esempio di un punk già in grado di oltrepassare se stesso e di collocarsi in una prospettiva diversa, ormai contigua alla new wave propriamente detta. La band avrebbe poi sviluppato queste geniali intuizioni attraverso l’irresistibile progressione che da “Chair Missing” (1978) porterà a “154” (1979), fra i maggiori capolavori del post – punk nonché irrinunciabile punto di partenza per il genere stesso. Appena dopo, il primo scioglimento per ‘eccesso d’idee’.
I Wire che nel 2011 si ripresentano con “Red Barked Tree”, loro dodicesimo album, sono quindi molto diversi rispetto ai rivoluzionari del ’77. Hanno sulle spalle due split, due cesure nette che li hanno costretti ad inserirsi nella storia della musica in modo discontinuo, lacerato, sussultorio. Senza però mai perdere la creatività che ha permesso loro di scriverla, quella storia. E, a ogni reunion, di tornare se non con il miglior smalto, almeno con un arsenale di canzoni più che dignitoso, persino interessante a volte, come nel caso del lavoro successivo alla seconda riunione, “Send” (2003). È così anche per quest’ultima fatica, encomiabile sotto molti aspetti, che mostra il volto più ‘lirico’ e raccolto della band.
Rari gli spunti memori delle prime prove. Il punk isterico di “Two Minutes” si ricollega sicuramente al già citato “Pink Flag”, mentre i synth e le cadenze industriali di “Moreover”, la cupezza paranoica del riff di “Smash” (fra il dark e lo shoegaze) e la litania della title – track potrebbero far intendere un parziale recupero degli esperimenti sull’alienazione presenti in “154”. Tuttavia, gli altri episodi virano su di una wave soffice e raffinata, sorta di ballate scaturite dalla mente di ex studenti di Belle Arti che ormai si dilettano nel distillare rarefazioni art – rock in un peculiare ripiegamento nostalgico. Prendete, ad esempio, “Please Take” e “Adapt”; non stonerebbero in un disco del David Bowie dei Novanta, diciamo “Outside” e “Hours…”. Oppure “Clay”, melodia quasi brit – pop immersa in riverberi acid – pop, o ancora il solido indie – rock chitarristico di “Bad Worn Thing”. E nel ritmo di “Now Was” sono quasi presenti i Feelies decostruiti.
I Wire sono dei maestri, e “Red Barked Tree” è un disco da maestri, con tutti i particolari al posto giusto, una produzione di alto livello e il grande mestiere accumulato in 35 anni di lavoro che si fa sentire in ogni nota. Non è un capolavoro, ma quelli gli inglesi li hanno già scritti, quindi ‘accontentarsi’ di un ottimo disco come questo è un dovere.
Stefano Masnaghetti