Metallica – Hardwired… to Self-Destruct

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C’è da ammetterlo, approcciarsi a un nuovo lavoro dei Metallica è come essere l’eroe di un film d’azione che davanti a una bomba è al vertice della tensione, con il sudore che cola copioso sopra gli occhi che guardano quei due maledetti fili, uno blu e uno rosso, e non si ricorda proprio quale dei due va tagliato e quale lasciato stare, per non saltare in aria con tutti i sogni di gloria. Oppure è come quando il partner ti ha fatto soffrire e disatteso le tue aspettative e da allora in poi non riuscirà mai, neppure provandoci al massimo, neppure fornendo una prova senza la minima sbavatura, a riconquistare la tua fiducia andata perduta. Ogni azione, ogni interazione che vi riguarda risulta avvelenata, distorta, e niente di quello che fa è più immune da critica, da biasimo. Oppure, è l’ora di ascoltare ‘Hardwired… to Self-Destruct‘ e lasciare agli scrittori veri le metafore.

Subito colpisce un cambio netto di tendenza rispetto agli ultimi due album di studio (e lo avevamo notato durante la pre-listening di qualche giorno fa), e qui dobbiamo subito rincuorare i fan. La produzione è di altissimo livello, l’ascolto è pieno e piacevole, tutti gli strumenti hanno il loro spazio (compreso, ahimè, la batteria) i suoni sono bilanciati e potenti nei punti giusti, i pezzi hanno corpo e tridimensionalità, cosa che darà rispetto ai lavori precedenti una longevità più duratura che quella di un paio di dolorosi ascolti. Greg Fieldman e gli stessi Ulrich e Hetfield fanno un gran lavoro, e non sentirete più il rullante da incubo di ‘St. Anger’ e quei pezzi prolissi e monolitici come il polpettone della nonna (e altrettanto digeribili) di ‘Death Magnetic’. Di questi due album i Metallica mantengono la voglia di tornare al thrash, dopo la parentesi blues metal di ‘Load’ e ‘Reload’ che tante polemiche ha creato, continuando a pestare con i soliti riff che Hetfield sembra tirare fuori da una scorta personale inesauribile, e costruendo i pezzi come quei monumenti del metal dei loro primi album, epici componimenti di minutaggi consistenti pieni di urla, cambi di tempo e accelerazioni trash intervallate da momenti doom, che hanno fatto la storia del genere e che per generazioni i musicisti hanno mantenuto come faro di punta creativo.

Ora, lo abbiamo già detto, commentare e giudicare un lavoro dei Metallica non è cosa semplice. Il loro pubblico è talmente variegato, accresciuto negli anni a macchia d’olio è arrivato ad abbracciare una diversità da primato del genere, abbracciando una gamma di gusti senza confini. Questo ha portato a coprire ogni loro gesto di valanghe di commenti di ogni genere, diffondendo tribune e litigi, sopratutto nel campo di battaglia di internet, rendendo ogni loro uscita un’occasione di guerre tra fan di vecchia data e nuova: tra chi sostiene si siano venduti a chi li vede ancora come i padroni supremi del genere, tra quelli che si sentono traditi da supposti cambi di pelle della band a chi invece ha abbracciato le loro metamorfosi come segnale di genialità. Insomma, è un lavoraccio isolarsi da tutti i pregiudizi nati intorno a quella che è innegabilmente un’industria oltre che una band, e che è sempre andata per la sua strada indipendentemente dalla moltitudine di umori che gravitano intorno al loro brand. Un altro problema non da poco è cercare di godersi il loro nuovo lavoro non comparandolo con i loro album storici, almeno non con giudizi di merito. Andiamo, sappiamo benissimo che non sentiremo da loro un altro ‘Master Of Puppets’, quindi non sprecheremo fiato ad affermare «eh ma ‘Battery’… ».

Dopo questo autotraining, possiamo finalmente approcciarci all’ascolto di questo doppio album, sei tracce per disco, dal titolo ‘Hardwired… to Self-Destruct’.

I Metallica non fanno più nulla di avventato, non fanno uscire album improvvisamente come gli Avenged Sevenfold. Il loro cd è stato massicciamente anticipato da ben tre singoli, che troviamo tutti nella prima parte. La prima, ‘Hardwired’, è la traccia lampo, quella più corta, con un minutaggio che ormai è diventato una rarità nelle produzioni della band, con la sua durata sotto i quattro minuti. ‘Hardwired’ è veloce, furiosa, immediata. ‘Moth To The Flame’ è sulla stessa linea, con i soliti riff spacca ossa, un paio di linee melodiche azzeccate e la convinzione sull’ultima uscita Metallica si consolida tra le file dei fan. ‘Atlas..Rise!’ spinge l’asticella ancora più su in costruzione del pezzo. I fan dei vecchi lavori qui avranno un colpo al cuore perché il main riff ricorda molto in maniera nostalgica quel capolavoro di ‘Seek And Destroy’ del primo album ‘Kill ‘Em All’. Il minutaggio aumenta sensibilmente, la furia rimane intatta, ma questo terzo singolo lascia presagire che i pezzi di presa più immediata siano stati giocati per l’anticipazione radio dell’uscita, e così è.

Il primo disco, oltre ai tre cavalli di battaglia, è ben calibrato e fila liscio e appagante. ‘Now That We Are Dead’ piomba con un mid tempo e una batteria per una volta piacevole, non invadente, e anche se il ritmo rallenta sensibilmente, la potenza rimane invariata grazie al tocco di Hetfield, che è senza dubbio uno dei più grandi ideatori di riff della storia del metal. La linea vocale è aggressiva, ma si sentono echi dei loro lavori più calmi, quei tanto vituperati ‘Load’/’Reload’ e soprattutto di ‘Garage Inc.’.

Così come ‘Dream No More’: la melodia vocale e gli effetti usati da James ricordano molto i pezzi di ‘Reload’, anche se si cerca di mantenersi nei sentieri del thrash e non del blues. Qui le rullate di Ulrich cominciano a mietere le prime vittime tra i neuroni degli ascoltatori, riempendo la canzone di mitragliate che sembrano singhiozzi, di quelli che nessun spavento riescono a dissolvere, e che ti assicurano una notte insonne. ‘Halo On Fire’ chiude la prima parte, la più lunga dell’album, e benché sia interpretata con passione da Hetfield, risulta un po’ troppo pesante. ‘Load’ era pieno di queste ballate metal, ma avevano un indubbio appeal melodico che, anche i fan della prima ora devono oggi ammettere, sono diventati dei classici della band. Insomma, l’epicità di ‘Until It Sleeps’ è lontana.

Lanciamo il secondo disco senza indugi, e incontriamo ‘Confusion’ in apertura. Vediamo se nella seconda tranche riescono a mantenersi nel buon livello fin qui registrato, invece che trovarci di fronte come spesso accade ad un materiale riempitivo di scarto per allungare il minutaggio complessivo. Il primo pezzo si apre con una rullata strappabudella di Lars (non si capisce come in tutti questi anni non si sia riusciti ad interdirlo), subito esorcizzata da un riff potente di Hetfield e da un cantato piacevole, un pezzo alla ‘Death Magnetic’ ma ben prodotto. Non male. ‘ManUNkind’ si presenta con un giro del basso di Trujillo melodico in armoniche, ma esplode subito con un altro riff granitico che ancora una volta suona come un pezzo di ‘Reload’ ristrutturato. I cambi di tempo e i riff sono divertenti e rendono il tutto piacevole.

‘Here Comes The Revenge’ invece fa le sue presentazioni con una veste da primi anni ’90, da ‘Black Album’ per la precisione. ‘Am I Savage’ sembra uscita da ‘Garage Inc.’ ed è il pezzo più convincente incontrato fin ora. Davvero sorprendente la sua camaleonticità, potente e melodico, il migliore prodotto dai Metallica da anni. ‘Murder One’ parte strizzando l’occhio all’arpeggio iniziale di ‘Welcome Home (Sanitarium)’, e anche se i livelli sono lontanissimi, la canzone non delude e non abbassa la qualità di ‘Hardwired… ‘. Con ‘Spit Out The Bone’ i giochi si chiudono, e i Metallica decidono di lasciarci pigiando al massimo l’acceleratore. Forse il pezzo più esplicitamente nostalgico, della velocità furiosa che li ha resi una macchina tritatutto per tutto il mondo. E’ thrash puro, tutti i componenti vanno al massimo, con una concessione alla melodia nella parte centrale subito soffocata da altra furia metal, fino al finale doom da headbanging.

Il disco è finito e i detrattori che non vedevano l’ora di NON sentire un altro capolavoro dei Metallica avranno di che esultare. Quelli che avevano paura di sentire altri disastri possono stare tranquilli. Il disco è piacevole nonostante un Ulrich che farebbe suonare male persino i Queen. L’ascolto è stato incentrato su un confronto di riferimento costante ai lavori vecchi, ed è inevitabile per una band che arrivata ad una certa età non pretende più di rivoluzionare il mondo, come faceva in gioventù, ma semplicemente di ricordare, producendo materiale nuovo, che quei capelloni furiosi che distruggevano le città che visitavano sono sempre loro, e che se vogliono sanno ancora farti esaltare.

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