The Heavy Countdown #36: Moral Void, Steven Wilson, Thy Art Is Murder, Incantation

Moral Void – Deprive
Un unico disperato urlo di dolore, intenso e nero come la pece (che a tratti ricorda i lavori dei Full Of Hell). L’esordio dei Moral Void è un’opera hardcore che scruta gli abissi del black metal, rimanendone ipnotizzata senza rimedio. Prendete la mastodontica “Shadow” (con i suoi quasi otto minuti di durata) e divertitevi a sezionarla per trovare tutte le reminiscenze black che ci sono incastonate.

Steven Wilson – To the Bone
Parcheggiati i Porcupine Tree, Steven Wilson si dà alla pazza gioia con progetti paralleli vari ed eventuali. Con “To the Bone”, il musicista dimostra il suo imperituro amore per il prog, ma con nuove interessanti derive (leggi alla voce pop). Proprio per questo motivo, “To the Bone” è forse il disco più accessibile della carriera solista di Wilson, pur senza rinnegare le sue radici, e nonostante indugi nell’introspezione e si lasci traportare da ritmi più rilassati (soprattutto nella seconda metà del lavoro).

Thy Art Is Murder – Dear Desolation
Neanche troppo tempo addietro, CJ McMahon aveva dichiarato di abbandonare i Thy Art Is Murder perché, in soldoni (ah ah), “stanco di essere povero”. Ora, non sappiamo quale sia la ragione che abbia spinto il vocalist a tornare sui propri passi, ma in “Dear Desolation” il suo apporto si sente eccome. Ormai sempre più blackened death che deathcore (tanto che sono in molti a paragonarli a novelli Behemoth), i Nostri seguono una strada già battuta (vedi Carnifex e Lorna Shore). E vincono facile.

Incantation – Profane Nexus
Decimo disco per i pionieri della scena death di New York. Molto meno affermati di colleghi americani come Morbid Angel e Cannibal Corpse, gli Incantation proseguono imperterriti nella formula immutabile che li ha affermati nell’underground. L’opener “Muse” e “Messiah Nostrum” sono il biglietto da visita perfetto per entrare nell’oscurissima musica di John McEntee e compagni (p.s.).

Wage War – Deadweight
Di sicuro il metalcore, pur trascinandosi da anni senza variazioni sostanziali di sorta, è vivo e (abbastanza) vegeto. Lo dimostrano i Wage War, che tornano a due anni dal primo disco, “Blueprints”, continuando a sviluppare il loro sound fatto di breakdown e ritornelli orecchiabili (dopo un secondo vi ritroverete già a canticchiare il refrain di “Don’t Let Me Fade Away”, giusto per farvi un esempio). Carini, ma innocui.

Dagoba – Black Nova
Posto che la proposta dei Dagoba non era più di moda già quindici anni fa, gli esponenti francesi dell’industrial metal pubblicano il settimo full-length, “Black Nova”, che contro ogni previsione, fila liscio dall’inizio alla fine ed è ben strutturato. Ovvio che sono clean vocals e synth a farla da padroni a discapito degli episodi più pesanti, ma è proprio questo il bello di un disco che anche se non riscriverà la storia, vi farà passare di sicuro una piacevole oretta.

Eskimo Callboy – The Scene
A tratti irritanti (il simil electropop di “Frances” ne è un buon esempio), a volte divertenti (quando sconfinano nello zarrocore tanto caro a Fronz degli Attila, che appare in un featuring nella titletrack), il più delle volte inoffensivi (tutti gli altri pezzi di “The Scene”). Inutile dire che il party-metalcore degli Eskimo Callboy è una minestra riscaldata che non aggiunge nulla né alla “scena” né alla carriera della formazione tedesca. Consigliato solo se siete minorenni.

InVisions – Never Nothing
Appena è partita la prima nota di “Never Nothing”, mi si è accesa la proverbiale lampadina, e le parole “Asking Alexandria” mi sono balzate in mente un attimo dopo. E in effetti, manco a farlo apposta, non solo gli InVisions condividono con gli AA la stessa città di origine, ma anche lo stesso sound. Insomma, un altro esempio di band che trova maggior conforto in un passato ormai morto e sepolto piuttosto che nell’eccitante incertezza del futuro. E il fatto che sia un album di debutto, con la qualità che oggi c’è la fuori, non è più una scusante.