Morrissey – World Peace Is None Of Your Business

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Abbiamo poco da prenderci in giro: se c’è una cosa che terrorizza più dei “dobbiamo parlare” di una ragazza è il ritorno in pompa magna dei musicisti. Perchè, generalmente, la campagna di marketing è direttamente proporzionale alla pochezza dell’album e la delusione è più quotata della polemica gratuita di Sgarbi in diretta. Quindi se per cinque mesi sono riuscito a stare lontano dall’ultimo di Morrissey non lo devo ad una resistenza da asceta, ma alla paura di veder crollare un genio (quasi) indiscusso sotto l’ennesimo slancio senile.

Oggi, a qualche giorno dal mio primo ascolto, posso ammettere di essermi precluso qualcosa di magnifico per tutto questo tempo. Perché già dalle prime note “World Peace Is None Of Your Business” riesce a coinvolgere in un mondo che è quanto di più equilibrato ci si possa immaginare, soprattutto alla luce di un panorama discografico che è tutto artifici e poca sostanza. Morrissey con la sua ultima fatica sbalordisce l’ascoltatore e unisce la propria pluridecennale sapienza a quella del produttore Joe Chiccarelli (The Shins, U2, The Strokes, The Killers etc.), lanciando nel mercato una chicca che ha tutte le carte in regola per diventare un classico.
A partire dalla traccia iniziale, da cui l’LP prende il titolo, i temi che Morrissey affronta ne dipingono a pennellate forti un ritratto polemico e poco ottimista, da arido borbottone quale è sempre stato. La poetica, che armonizza perfettamente con le note in minore di mid-tempo e ballate varie, è sorretta ad hoc dalle chitarre di un Boz Boorer che non fa rimpiangere il Marr dei tempi d’oro, unito a comparti orchestrali che fanno invidia alle produzioni più articolate. Gli echi strumentali strizzano perennemente l’occhio a mondi che sono un po’ orientali (“Istanbul” su tutte) e un po’ spagnoli (“Earth Is The Loneliest Planet” e “Besame Much…” ehm “Kiss Me A Lot”), fondendosi in una soluzione che ha qualcosa di nuovo e qualcosa di quei primi Novanta che tutti rimpiangiamo; Morrissey compreso a quanto pare, che include fra una polemica e l’altra temi giovanili (gli esami universitari di “Staircase At The University”) e animalisti (“The Bullfighter Dies”).

Il risultato è un pop orchestrato e colto, in cui le strutture complesse dei brani non pesano mai sui quattro minuti circa di esecuzione. Anzi, al contrario fanno sperare che alcuni riff, vocali o di chitarra, continuino all’infinito. E che Morrissey, con la sua lirica struggente, continui ad incantarci come fa da trent’anni a questa parte, ricordandoci di quando la musica era poesia.

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