Serve un po’ di incoscienza per prendere un genere musicale esistente da sempre e decidere di farne il tuo cavallo di battaglia. Ma ne serve molta per riuscire nell’impresa, fare un secondo LP da cinque milioni di copie vendute e cambiare radicalmente strada dopo l’esperienza di sei anni di produzione e tour mondiali.
E’ quello che è successo ai Mumford & Sons che reduci dai due successi di “Sigh No More” e “Babel”, capisaldi del nu-folk post 2009, si rilanciano nel mercato musicale con “Wilder Mind”, terzo e nuovo album uscito sotto Glassnote Records il 4 Maggio.
Nato sotto le volte del garage di Aaron Dessner dei The National e prodotto dalle mani sapienti di James Ford (Arctic Monkeys, Klaxons etc.), il disco impone subito il proprio allontanamento dal banjo a cui ci eravamo abituati accogliendoci con batteria, chitarre elettriche e sintetizzatori d’atmosfera, amalgamati dalla voce del frontman Marcus Mumford che canta di amore, vita quotidiana e problemi comuni. Ma non c’è alcun orpello in questo insieme di tinte calde, che rimangono sempre quegli arancioni autunnali a cui possiamo ricondurre i primi due dischi. Con la svolta elettrica non è cambiata la stagione, è cambiato il momento della giornata: “Wilder Mind” è la colonna sonora della notte di una città addormentata, contro il giorno campagnolo di quanto ci era stato raccontato fino al 2012.
Per questo ogni pezzo è una cattedrale di semplicità, con pochi suoni riverberati e messi al punto giusto in quell’ottica un po’ a-la Coldplay che tanto è stata ritrovata (e criticata) nel singolo “Believe”. Ed effettivamente il fantasma di quel tipo di pop permea tutto l’album senza penalizzarlo, richiamando gli ambienti che solo i gruppi come i Kings Of Leon o gli stessi The National riescono a ricreare. Ne sono esempi brani come “Wilder Mind” e “Broad-Shouldered Beasts”, dejavù di qualcosa di tanto sentito quanto bello.
Il fatto che si aggiunga poco di nuovo ad un genere ampiamente noto è l’unica pecca di un album che fa da ponte fra quello che è stato e quello che sarà, mantenendo vivi gli accenni al passato (le melodie di “Monster” e “Only Love” sembrano uscite direttamente da “Babel”) e cercando l’evoluzione dietro i giubbotti di pelle, i capelli lunghi e le Stratocaster effettate.
Che la strada sia quella giusta è ancora troppo presto per dirlo. Ma se anche il tutto rimanesse circoscritto ad un esercizio di stile, forse vorremmo che Mumford e figli si esercitassero più spesso.