“Drones” dei Muse passa a metà la prova ascolto. Mi spiego meglio: quando si deve recensire un disco, ciascuno di noi applica una serie di procedure di assorbimento dell’album che sono estemamente personali. Ad esempio, Justin Timberlake ha rivelato in un’intervista che quando deve capire se il disco funzioni o meno, se lo porta in macchina, lo carica nel lettore e parte a farsi un giro per la città. Se non gli viene voglia di cambiare canzone in corso di guida, vuol dire che l’album funziona.
Io applico invece la teoria del sonno: se un disco fresco di uscita o ancora sconosciuto alle mie orecchie mi induce uno stato di veglia cosciente, nel quale sembra che io stia dormendo mentre il suono scorre fluido attraverso i gangli cerebrali che si lasciano andare a sinapsi libere, vuol dire che è un buon disco. Partono collegamenti notevoli mentre la musica diventa contemporaneamente tappeto e protagonista.
“Drones” dei Muse mi ha tenuto ad occhi spalancati.
Sarà stato lo stupore o il fatto che il piacere iniziale, dominato dalle pestate serrate di batteria della traccia di apertura “Dead Inside”, ha presto lasciato il posto allo sgomento e al “no dai non possono davvero aver inciso questa roba”.
I Muse con “Drones” hanno fatto un buon disco che funziona solo per metà: brani potenti e piacevoli tra i quali “Reaper”, “The Handler”, “Psycho” (primo singolo) e “Dead Inside” rinfrancano l’ascolto e fanno ben sperare per la resa dal vivo che è sempre stata il bello della band di Matt Bellamy, Dominic Howard e Chris Wolstenholme. Resta lampante un tributo al rock che spazia dai Rage Against The Machine ai Doors, che per quanto sia inconcludente rimane un ottimo rilancio per chi fino al disco precedente veniva discusso per l’omaggio – che poi proprio omaggio non era – a Skrillex. Il resto però è un marasma fastidioso che non è riuscito a lasciare da parte definitivamente la vituperata elettronica, affiancandola in modo pedante al ritorno agognato delle chitarre dei primi tre dischi. Per dire, “Revolt” e “Mercy” sembrano outtake di un qualunque gruppo pop americano dell’epoca Dawson’s Creek, non canzoni dei Muse.
Si capisce perfettamente l’ispirazione del concept album e la voce di Bellamy sembra non perdere una sfumatura delle sue mille essenze, tanto raggomitolata di dolcezza quanto stridente nelle sue invettive. Matt c’è, Chris e Dominic ci sono e inanellano una serie di bellissime invenzioni, ma il disco non va.
C’è troppo auto-compiacimento, come se i Muse si stessero dicendo “ehi, siamo bravi vero?”, cosa di cui non hanno minimamente bisogno. La produzione non li aiuta: l’eccesso di compressione fa perdere molto alla bellezza dei brani, che sicuramente nella prova dal vivo del prossimo 18 luglio a Roma sapranno spazzare via ogni rarefazione da studio.
Però non è così che va: “Drones” non è il capolavoro che stavamo aspettando, il gancio con il passato glorioso di Absolution e l’abbandono definitivo delle deviazioni elettroniche di The 2nd Law. E poi manca proprio quella forza espressiva dell’emozione che sa bucare le orecchie.