Il poeta Ezra Pound sosteneva che la tradizione è una bellezza da conservare, non un mazzo di catene per legarci. Niccolò Fabi, nel nuovo album uscito lo scorso 11 ottobre, “Tradizione e tradimento”, si muove proprio lungo la linea che unisce e divide, allo stesso tempo, il libero allontanamento da terreni musicali già solcati sperimentandone altri per ispirazioni, esperienze, linguaggi nuovi e il necessario desiderio di tornare indietro poiché quel lignaggio è sinonimo di casa, melodie spontanee, parole di vita vissuta.
“Sentivo di non potere né volere andare nella direzione che mi aveva portato a incidere il precedente “Una somma di piccole cose”, disco molto casalingo, intimo” – ha spiegato il cantautore durante la presentazione dell’album – “Ho pensato fosse giusto giocarmi un’altra carta, trovare un modo per far evolvere la mia scrittura e le mie sonorità“.
Era stata scelta la via dell’elettronica per l’undicesimo disco: un anno e mezzo di tentativi, di intagli di dinamiche note e di lavoro da Ibiza, nello studio di Costanza Francavilla, amica e producer romana. Le tracce, tuttavia, non prendevano forma o non assumevano la fisionomia che l’autore aveva ideato per loro. Con un eccesso di razionalità, la voce risuonava fredda, non evocativa, non personale. Da qui, il senso di delusione, di fallimento che hanno ricondotto alla città natale, agli amici, ai colleghi di sempre, Roberto Angelini e a Pier Cortese, ai quali affidare dubbi, perplessità, possibilità, speranze, e ai quali affidarsi, pur mantenendo fertile il canale delle suggestioni sintetiche.
Un processo creativo insidioso e non scevro da cadute, riprese, attriti. Attriti che, però, hanno generato una fiamma, una scintilla che scotta, verbo delineato alla terza persona singolare, presente e che dà il titolo al brano di apertura. Un arpeggio al pianoforte impreziosito da lamelle vitree di campionature di suono che sembrano provenire da uno scacciapensieri sfiorato dal vento; l’intonazione e la fondamentale importanza delle note in quella parola, “scotta”, che anticipa un testo tanto ermetico quanto denso. Una dichiarazione di intenti ad alta temperatura, nella celebrazione dell’arte come responsabilità, impegno e capacità di scoprire ciò che è nascosto e nel rifiuto delle pose indifferenti (eloquente l’enjambement che lega i versi Quando non si gira dall’altra parte/ L’arte non è una posa). Compito dell’artista è concentrarsi sui dettagli tralasciati, sulla felicità in un momento di distrazione dalla realtà comunemente intesa. O folgorazione, come in quello scorcio dai colori opposti ma complementari impresso sulla copertina dell’album che racconta la storia di un viaggio in Africa. Una foto scattata ai pochi centimetri di intersezione tra il pavimento scrostato e la balaustra arrugginita di un vecchio faro, mentre tutti stavano immortalando le sfumature del tramonto. È questo il dono e la missione della poesia che poi riconsegna tali visioni sotto forma di sogno. Una dimensione onirica ricreata, a livello melodico, nei quasi tre minuti strumentali in chiusura della canzone – ispirati da un fantasioso incontro in Islanda tra Quasimodo e i Sigur Rós – durante i quali la libera interpretazione di quanto descritto viene fatta riposare, metabolizzata, interpretata.
Si torna, poi, sulla Terra con il senso del tempo scandito dalle lancette, dalla clessidra e dalle percussioni incalzanti di “A prescindere da me”. Un tiranno dal quale non si sfugge ma che induce al movimento, linfa vitale della nostra esistenza. “Tre anni fa, decisi di prendermi una pausa ritagliandomi i miei tempi e i miei spazi, senza alcuna fretta. Ad un certo punto, però, era come se mi sentissi spento. Non rientra nella mia natura la stasi” – ha confessato Niccolò (Perché quando mi fermo / È arrivata la mia ora). Si procede, allora, tra la memoria e la prospettiva che possono incedere orizzontalmente oppure spiccando il volo, dal basso verso l’alto. Una verticalità su cui si arrampica “Amore con le ali”, l’unica composizione che conserva intatto l’impianto elettronico, decorato dall’eleganza degli archi. Un elenco di mezzi di trasporto raffigurati come “strumenti magici” che concedono l’evasione nell’universo dei sentimenti.
Tra questi, uno è quasi sacralizzato nel primo singolo estratto, “Io sono l’altro”. Fra le righe di un testo più dichiarativo che metaforico, in un canale comunicativo che predilige il sussurro allo slogan, si legge l’urgenza sociale di empatia non solo per evitare di etichettare la diversità come minaccia ma, soprattutto, per mettersi nei panni di coloro che, in modo più o meno imprevisto, potremmo incontrare lungo il percorso. Il giro di boa è costituito dalla centralissima “I giorni dello smarrimento”. Le ritmiche orientaleggianti evocano il nomadismo dei paesaggi deserti, il vagabondare auspicando una meta che, però, non arriva. L’unica assoluzione può essere, quindi, prendere coscienza del fallimento e tornare indietro, rivalutare le pareti domestiche, il tavolo apparecchiato di un’osteria, le rive conosciute di un fiume dove ricominciare a suonare con i musicisti di sempre, con gli amici di sempre. Non a caso, la traccia vede la partecipazione di Pier Cortese sia nella composizione sia nella linea vocale.
Coprotagoniste della scena sono quelle figure essenziali nelle scelte che implicano un salto coraggioso, proprio quando la paura è più grande perché amplificata dal vuoto della solitudine. Uno slancio “Nel blu”, titolo della traccia numero sei che termina con un’onda musicale protratta e avvolgente. “Prima della tempesta”e“Migrazioni” spostano lo sguardo su una prospettiva esterna: da una parte la profezia che vede l’uomo perennemente sconfitto nella lotta ingaggiata con la natura, dall’altra la storia dei movimenti umani delineati attraverso il volo di stormi di uccelli, in una traslazione sopraelevata di significato.
Il cerchio si chiude con “Tradizione e tradimento”, titletrack dai riff acustici delicati e dalle parole taglienti, concettuali, forse troppo per essere posizionata in apertura, come ideato inizialmente e come ammesso dallo stesso Fabi. Avrebbe ristretto troppo il campo di azione e di riflessione, nell’inutile tentativo di mitizzare due poli opposti: l’ambizione artistica di ricerca rimanendo sempre se stessi. Non vince né la tradizione né il tradimento in questa lotta che può soltanto essere ingaggiata con rispetto, consapevolezza, decisione e coerenza. È il filo su cui cammina l’acrobata, la spada scintillante del samurai, la penna del poeta. È questione di intensità, equilibrio e umanità. “Non ho un talento particolare, non scrivo né canto particolarmente bene, ho un sacco di amici venti volte migliori di me che quando si mettono a improvvisare ti lasciano a bocca aperta. Mi rendo conto di essere un po’ speciale quando ho l’intensità: quello posso ammetterlo”.