Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree

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Skeleton Tree’ è il nuovo album in studio di Nick Cave and The Bad Seeds. Tentare di spiegare il background emotivo e artistico che sta dietro ogni lavoro di Cave è peccare di presunzione: quella di poter arrivare in lidi di sofferenza e sensibilità che non sono concessi, ma solo suggeriti e sospirati. E’ questa la grandezza della musica e delle opere autoriali, di farti intravedere un mondo possibile ad un livello di realtà più profondo, potenzialmente letale. E’ il ruolo dei poeti della musica come quelli della carta, di soffrire per noi e di farci provare con le loro opere un mantello di quell’agonia trasformandola in bellezza, in una sensazione di estasi artistica che ci fa sentire al tempo stesso più presenti nella nostra carne e più lontani dai nostri piedi appoggiati a terra, quella che condividiamo con gli altri umani.

Ci troviamo così di fronte ad un albero di ossa, immagine che ci suggerisce immediatamente l’ossimoro tematico di qualcosa al tempo stesso vivo e morto, il simbolo della nascita e della vita, della fecondità, posto però nelle spoglie umane e private della vitalità terrena, le ossa, ultima testimonianza di un’esistenza ormai svanita da ricercare in un ricordo, irraggiungibile ai sensi. Mancanza in quanto immagine onirica e tematica, un perno che non si riesce a scostare nei testi di questo album che ha le sue radici porose all’interno della biografia di Cave, visti i recenti fatti di cronaca che lo riguardano. La tragedia in Nick Cave è talmente presente da amalgamarsi in un’unica marmellata nera che mischia arte e vita, dove la perdita del figlio Arthur, caduto accidentalmente da una scogliera sotto effetto di allucinogeni, trascende il fatto stesso posandosi come un sudario sulle atmosfere e sulle parole di Skeleton Tree.

Ma attenzione, questa cupa e morbosa chiave di lettura dell’ascolto dell’album è qualcosa che deve rimanere strumento e orpello macabro dell’ascoltatore, perché inutile sarebbe l’analisi di ogni parola del testo e di ogni nota alla ricerca di qualche riferimento diretto alla tragedia famigliare di Cave. Ovviamente ci sono dei passi che potrebbero combaciare con il dolore di una perdita o della sensazione di cadere dall’alto (in ‘Jesus Alone’ in apertura si parla di un Gesù che cade dall’alto e precipita in un campo) però andiamo, stiamo parlando di Nick Cave. Prendete un suo testo a caso e combacerà come per magia con una vostra tragedia personale o tuttalpiù con una vicina alla vostra sfera degli affetti.

Skeleton Tree è uno di quei dischi che non puoi ascoltare semplicemente infilandoti le cuffie e premendo play. Devi capire la persona che pronuncia le parole e manipola il sintetizzatore, il contesto nero nel quale è immerso. Questo non vuol dire che anche a livello subliminale non dia piacere. E’ come essere sommerso in un’acqua nera fino alla vita, in una stanza spoglia, con il liquido denso che forse non è proprio acqua, è più scuro. Intorno a noi ci sono solo pareti spoglie, ma non bianche. E quel liquido che ci circonda è troppo viscoso per essere acqua, e troppo scuro, e la fioca luce non ci permette di vedere il suo colore ma che in qualche modo sappiamo essere rosso sangue. Il momento dell’immersione è consapevole e avviene naturalmente, in un patto stipulato con Nick Cave in persona, che sappiamo troveremo al di sotto della superficie rosso sangue, dove le pareti opprimenti non ci sono più e dove ad opprimere è ben altro: sono i sentimenti di perdita, di inadeguatezza, che chi segue l’artista da anni consce bene e ai quali non solo non vuole fuggire, ma che rimpiangevano con nostalgia dal precedente ‘Push The Sky Away’.

I suoni sono curatissimi e elettronici, ma benché creare un tappeto di suono appunto, si inerpicano intorno alle parole sofferte di Cave come rampicanti schivi che fuggono dagli altri elementi, in un processo di privazione piuttosto che di accumulo. La sensazione è quella di ricevere strattoni emotivi che ti attirano rudemente verso le tematiche apocalittiche dei testi, ma con le parti musicali che sono come una folla in una via trafficata che senza guardarti negli occhi ti passa accanto dandoti spallate malevole, mentre da dietro al di fuori del tuo campo visivo, muse delicate ti accarezzano come spettri di tutto quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Questa sensazione è evidente nella coppia formata dai pezzi ‘Ring of Saturn’ e ‘Girl in Amber’, dove le parole recitate di Nick Cave e le spallate scontrose degli strumenti che ci vengono incontro, si aprono alle carezze melodiche che di soppiatto si avvicinano non viste, e ci regalano alcuni dei rari momenti di apertura e respiro disarticolato dell’esperienza musicale dell’album. Con ‘Magneto’ le mani decise dell’arte di Cave si intrecciano intorno al nostro collo e ritornano a stringere forte, e il nostro respiro esala da quel poco di spazio che rimane. Si dice che in mancanza di ossigeno i sensi si acuiscono a dismisura, e in questo pezzo le chitarre acustiche appena accennate accompagnano in un cesto intrecciato di spine le note elettriche e i fiati, mentre le parole ci raccontano del dolore di amare, spezzate dall’emozione. Non sentitevi in torto se nelle atmosfere di ‘Anthrocene’ sentite i Radiohead più eclettici e acidi, ci sono eccome.

Le atmosfere anni ’80 in ‘I Need You’ sono dovute non solo ai sintetizzatori, ma anche alla fantastica melodia che forma un gospel nella passione del raccontare l’amore e nel suo accostarlo al divino, a qualcosa di alto e in quanto tale perennemente irraggiungibile, ma non per questo da ricercare arrancando e incespicando con il braccio proteso, e in volto un’espressione di sofferente speranza, prima dell’inevitabile caduta. Il pezzo è stupendo, l’intensità delle emozioni provate richiamano il mood di cui parlavamo in apertura: quella strana alchimia che trasforma la sofferenza e la mancanza in bellezza e piacere, un capitombolo morboso sul quale è doloroso soffermarsi a riflettere. ‘Distant Sky’ è un’ immagine di vuoto incolmabile tra noi e qualsiasi cosa, una sensazione di freddezza che fa pensare a lande ghiacciate e ruscelli che si snodano in mezzo alla neve. Un lamento melodico che si intreccia con due voci, una femminile ad accompagnamento della familiare voce di Cave, e quasi pare di vedere una chiesa in mezzo ad un paesaggio di montagna freddissimo, lontano da tutto e da tutti, all’interno della quale si celebra un rosario alla bellezza della mancanza.

‘Skeleton Tree’ porta il nome dell’album e chiude l’esperienza. Si presenta subito come una ballata classica di Nick Cave And The Bad Seeds, completa, più piena e definita, con chitarra acustica e piano, voci e doppie voci, che ci accompagnano verso l’emersione e il ritorno dalla placenta rosso sangue che ci ha immerso, con un pezzo per la prima volta non spiazzante e da godersi anche con la testa fuori dal liquido, mentre le mani artistiche di Cave allentano la presa e ci lasciano finalmente respirare. Mentre contempliamo l’albero di ossa Nick ci ricorda, ripetendolo più volte, che niente è gratis. Tutto ha un costo. Ed in particolare la bellezza, se provata, presto o tardi presenterà il suo conto.

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