Nicki Minaj non ha molto da dimostrare, se al terzo album viene già usata come termine di paragone per gli astri nascenti dell’hip hop femminile. E lei lo sa bene, per questo si permette di esordire con un singolo che fa parlare di sé più per il video con generosi lati b a profusione (ed il suo a guidare le marcia) che per la musica, nonostante non sia da tutti campionare Sir Mix-a-Lot in un brano così mainstream e ottenere il suo riconoscimento. E nonostante “Anaconda” non sia assolutamente un brano rappresentativo per il disco in sè.
Ma la rapper trinidadiana osa anche di più: il suo “The Pinkprint” ha la presunzione di voler essere accostato a “The Blueprint” di Jay Z, chiara fonte di ispirazione, non solo per il titolo della release. E in fondo l’azzardo non è così elevato, perché gli intenti sono buoni e il risultato ne trae vantaggio.
L’unica grande insicurezza di questo terzo capitolo discografico della Minaj risiede nell’aver continuato la via dell’ibrido, non abbracciando quella del rap più sfacciato che l’avrebbe vista trionfare anche tra i più scettici. Si impone una manciata di ballate pop in cui il pianoforte accompagna rime talvolta docili ma estremamente armoniose.
Un occhio di riguardo alla sfera personale, all’espressione intima, che nonostante la sfilza di produttori riesce a mettere in rilievo la firma di Nicki Minaj, in quello che è senza dubbio il suo album più personale e iconico, nonostante le incertezze che ne influenzano la valutazione complessiva.