Norah Jones esce con un nuovo album, ‘Day Breaks’, e la reazione generale è stata quella di considerarlo un ritorno. Ritorno a cosa? Perché non considerarlo semplicemente un nuovo album di una artista che è stata sempre abbastanza costante nella sua produzione? Perché ultimamente Norah aveva operato un leggero cambio di rotta, alla ricerca di lidi più fiorenti in un era in cui il pop è saturato da giganti quali Adele o Taylor Swift.
L’esperimento è stato quello di fortificare la sua immagine e renderla più aggressiva, per provare a combattere i mostri da classifica con le medesime armi, perché Norah ha la presenza, ha la classe, ha le capacità per irrompere anche lei in classifica con le note quanto con la sua presenza scenica. Il problema è che il suo punto di forza viene snaturato se la sua immagine proposta è quella di una cacciatrice di pubblico, ammiccante e spregiudicata come le sue colleghe. La forza della cantautrice è sempre stata quella di fornire al proprio seguito la tranquillità che ti dà un’artista proprio perché non si mischia alla massa e alla conformità di un mondo, quello del pop, saturato da marchette e accessori colorati e lustrini che con la musica c’entrano poco. Con i suoi due primi dischi, strabilianti, ‘Come Away With Me’ e ‘Feels Like Home’ si era costruita una credibilità superiore, di polistrumentista audace ma delicata, che navigava i mari tempestosi del jazz portandoceli alle orecchie di noi profani con una classe e finezza molto elegante, rassicurante e non prepotente. La sentivi superiore, ma a portata di mano. Le collaborazioni illustri (tra cui quella con Ray Charles) hanno dato lustro a una carriera che ultimamente pareva essere diluita da velleità estranee al suo spirito naturale. ‘Day Breaks’ non è, come erroneamente molti dicono, solo un ritorno di sonorità degli esordi. È anche e soprattutto un ritorno di attitudine, di pulizia di una patina di torbido che aveva offuscato l’idea che le sue note portavano a braccetto nella mente dei suoi fan.
Anticipato dalla classe e dalla pacatezza del singolo ‘Carry On’, con a sostegno un tenero videoclip che parla di amore duraturo e stabile che vince contro le avversità del tempo e della vita, ‘Day Breaks’ si apre con ‘Burn’, un pezzo non immediato e lontano dalle facili sonorità del pop, che mette subito in chiaro la lontananza da un certo mainstream e che ha portato a quel ‘è tornata alle origini’ che tutti stanno decantando. Norah Jones è semplicemente tornata a fare quello che sa fare meglio, seguire le sue radici che attecchiscono nella cultura jazz. La scoppiettante ‘Flipside’ alza leggermente il ritmo della discussione, con un ritornello divertente e spensierato. La bellissima ‘Tragedy’ sembra provenire direttamente da quell’album di esordio che la presentò al mondo e che vendette qualcosa come venticinque milioni di copie. Si viaggia sul velluto anche con la coppia ‘It’s A Wonderful Time For Love’ e ‘Don’t Be Denied’. Con ‘Peace’ le aspettative si alzano, aumenta la classe e il piano viene sedotto da un sax caldo e ammaliante; la voce di Norah è spettatrice di un tappeto jazz da club semioscuro, dove ombre di cavalieri danzano attaccati alle loro dame si muovono come fiamme in un camino, e fumatori solitari appoggiati alle pareti guardano il vuoto e pensano ad amori lontani e occasioni perdute. ‘Once I Have Laugh’ ci ricorda che se anche una sola volta abbiamo riso in un momento di luce, ci basterà con il suo ricordo a rischiarare tutti i momenti bui che incontreremo nel nostro cammino. Anche qui i fiati si uniscono al piano creando un accompagnamento pieno e divertente. L’atmosfera è come sempre di altri tempi, quello che Norah aveva parzialmente perduto nelle ultime note e copertine. È lei il ponte immaginario con un mondo seducente che non c’è più, perché la musica è il tappeto volante per raggiungere posti che nessun aereo può trovare. Il pop scompare completamente nella finale ‘Feaurette Africaine’, rilettura di un classico di Duke Ellington.
‘Day Breaks’ è un album leggero e di gran classe, che non si limita a riportare Norah Jones ai suoni degli esordi, ma con una dignitosa audacia preme ancora di più i tasti di ottone della cultura jazz, con le sue atmosfere rarefatte e di sospensione, allontanandosi in via definitiva dal caos di un mondo pop che è solo apparenza e mistificazione, sapendo fare della sua altissima normalità il punto di forza che l’ha portata ad essere il punto di riferimento di quella musica che ci porta, come una macchina del tempo, in posti di cui possiamo solo sognare, ad occhi chiusi, tra i tasti di avorio di un piano e la sua voce come un cuscino di velluto.