Abbiamo sempre sbagliato a considerare i Parkway Drive come un gruppo interessante ma come tanti altri. Il nuovo album “Ire” è un gigantesco “bravi babbi di minchia” che finisce in faccia a chi non ha mai fornito i giusti spazi ai dischi dei Nostri. Oddio c’è anche da dire che loro, come gli Heaven Shall Burn per capirci, non hanno mai fatto nulla per aumentare il proprio rango da “band che spacca ed è perfetta per i tre quarti d’ora pomeridiani al Rock Im Park” di turno. Dal vivo aprono tonnellate di chiappe, sono dei simpaticoni ma fondamentalmente erano sempre rimasti la classica band metalcore di livello. E basta.
Invece, al quinto disco, i Parkway Drive hanno iniziato a percorrere quella strada che ha portato bene agli Avenged Sevenfold qualche anno fa. No, non quella che prevede di riadattare qualche riff dei Metallica e dei Guns nelle proprie coordinate (che tra parentesi ti porta pure a fare l’headliner al Download), ma quella che porta a realizzare un cd dove gli stilemi classicamente METAL stanno benissimo di fianco a quelli prettamente metalcore.
Ed è un epic win. La loro proposta subisce una bella virata nella direzione giusta, ovvero verso l’immediatezza che potrà favorirli verso un’audience ben più ampia rispetto al passato, senza però snaturarli o depotenziarli. C’è ancora tanta sanissima violenza, specialmente nelle profondità dell’ugola di Winston McCall, pazzesco ragazzone che riesce a essere credibile anche su un pezzo ultra anni ottanta come l’opener. Subito dopo, sembra di essere finiti in territori August Burns Red (altri leader di una scena davvero in trasformazione), vista la violenza di “Dying to Believe”. Da sottolineare i corettoni epici di “Fractures” (marchio di fabbrica), meno “Writings on the Wall” che suona troppo testoter(r)onica per chi ha più di vent’anni.
I chicconi sono comunque nella seconda metà di album: “Bottom Feeder”, con il riff portante che fa abbestia Smooth Criminal, e “Sound Of Violence”, con una doppia pedalata iniziale e le gang vocal d’ordinanza, preparano il terreno a “Vicious” e al suo metalcorone da arena (già il terzo mid tempo classico della tracklist) con tanto di assoli al limite della cotonatura. Ultima slam dance con “Dedicated”, che con il breakdown conclusivo farà saltare denti a non finire dal vivo. Il pezzo finale ha diverse cose degli In Flames che furono, quanto meno come struttura chitarristica. Non il top ma niente male per chiudere un platter che aiuterà i Nostri a diventare ancora più grossi nel mondo pesante.