Forse non sarà il suo disco migliore, ma certo non si può dire che “The Hope Six Demolition Project” di PJ Harvey non sia un disco interessante. Perché lo è, a partire dal progetto interdisciplinare di cui fa parte e costituisce il climax. Lo è, perché è un disco crudo e pieno di spigoli vivi, come quelli che hanno colpito la mente e lo stomaco di Polly Jean durante il lungo viaggio intrapreso, assieme al fotografo Seamus Murphy, dal 2011 al 2014, tra Kosovo, Afghanistan e Washington DC e dal quale ha preso corpo il libro “The Hollow Of The Hand”, versi di PJ e fotografie di Murphy. Poesie diventate canzoni dopo l’insolita gestazione del “Recording in Progress” alla Somerset House di Londra, dove il disco è stato inciso all’interno di uno studio installazione, in cui musicisti e produttori hanno lavorato per un mese sotto lo sguardo del pubblico.
Non c’è da stupirsi, dunque, se la componente lirico-evocativa e le aperture melodiche, che ancora erano rintracciabili nel precedente “Let England Shake”, lasciano spazio in questo disco a sonorità più ruvide. A dominare sono l’elemento ritmico e ancor più quello corale, già avanzato nel disco precedente, e qui rinforzato quasi a voler dare voce all’aspetto comunitario dell’umanità incontrata durante il viaggio da cui il disco ha preso le mosse. A sostenere la voce di PJ sono i polistrumentisti John Parish, Mick Harvey, Jean-Marc Butty e Flood, fidatissimi collaboratori della cantautrice dai tempi di “White Chalk”. Tanto del sapore di questo nono album in studio della Harvey, poi, è dato dai fiati – per antonomasia la classe di strumenti più vicina alla voce umana -, tra cui il suo sax e il clarino basso del nostro Enrico Gabrielli, che assieme al chitarrista Alessandro “Asso” Stefana ha partecipato alla realizzazione dell’album (no, non finiremo mai di menarcela).
Un disco cazzuto e senza peli sulla lingua, che, partendo ancora una volta dalla parola, trova i suoi punti di forza nella coerenza e nel non aver ceduto alla lusinga dell’evocazione di paesaggi sonori distanti, riportandone invece, grazie ad arrangiamenti stratificati, al contempo rarefatti e lussureggianti, il sentore complesso e potente, che solitamente appartiene alla memoria. Ne risulta l’affascinante rielaborazione in musica e parole di un’esperienza umana ricchissima. Forse “The Hope Six Demolition Project” non piacerà a chi da un disco si aspetta una manciata di belle canzoni, ma chi sa ascoltare prima o poi se ne innamorerà.