Create un’immagine dietro i vostri occhi, un mago illusionista, uno di quelli che trovate ai bordi delle strade, non quelle trafficate del centro, quelle un po’ scostanti, dietro angoli che sfuggono agli sguardi disattenti, superficiali. Magari questo illusionista ha un sacco di cerone bianco ma uno sguardo estremamente riconoscibile, dietro tutto quel trucco, uno sguardo malinconico, bieco, un occhio è semichiuso, il viso scavato dai segni del tempo, la barba incolta. L’illusionista apre i palmi di fronte a sé e proprio davanti al nostro sguardo, ci mostra le mani vuote. La tela del dipinto libera e pulita, appena prima del prodigio. Ed è così che i Radiohead imbiancano tutto il loro territorio internet. Tutti i loro profili social si svuotano, assumono un bianco tela pre-prodigio, che è il nulla materiale ma il tutto onirico, e il mondo musicale smette di respirare in attesa di qualcosa di grande.
A questo punto i Radiohead cominciano a giocare, consci di avere tra le mani materiale di grandissimo spessore e della fame dei propri fan, fame di qualcosa di bello e di alto. Alcuni teaser e messaggi misteriosi sia sulla mailing list dei fan che tramite classico volantinaggio per strada si riferiscono al bruciare le streghe, e senza farsi attendere troppo, ecco il video della prima traccia dell’album intitolata appunto “Burn the Witch“. Da sempre l’esperienza Radiohead è da fruire a 360%, considerando il loro materiale come arte ai più alti livelli associata alla musica rock, e di particolare potenza è l’associazione della musica alle immagini. I loro videoclip sono sempre stati rivoluzionari e di grandissimo spessore, ricordiamo l’apocalittico messaggio di “Just” e l’iconico video di “Karma Police”, o il bellissimo incedere panistico di “There There”.
In questo caso, l’esperienza visiva associata alla musica si materializza in un piacevole stop-motion, che racconta le vicende di un folk al di là del tempo, dove reminiscenze di carattere medioevale ripropongono le procedure di auto-espiazione sociale per mezzo del fuoco distruttore delle paure ancestrali e delle catene sociali auto-imposte, materializzate e personificate nel non convenzionale, nella donna priva di freni e inibizioni e preconcetti, idealizzata nella figura della strega. Il sound si discosta da subito dalle ultime produzioni, deludenti a conti fatti, di “In Rainbows” e soprattutto di “The King of Limbs“, tornando a tratti più riconoscibili e musicali, con meno elettronica e arrangiature più rock ma al tempo stesso delicatissime e ricercate, spesso eteree e oniriche, che danno sempre l’impressione di avere di fronte una band che suona i suoi strumenti, ben presente e riconoscibile. “Burn the Witch” è un grido contro il rifiuto all’umanità, alla strada facile dell’uomo per esorcizzare la paura. Un concetto sempre presente nella storia dell’uomo. Il cantato di Thom Yorke è anch’esso un ritorno a territori passati dal gruppo, e tutti i fan non possono che provare piacere. L’uso degli archi conferisce pathos ad un pezzo semplice ma potentissimo, dove ogni particolare è curato.
Il secondo episodio di questo film del ritorno dei Radiohead è anch’esso in grande stile e, se possibile, alza ulteriormente l’asticella del potenziale artistico di questo lavoro. Come in precedenza, escono in contemporanea musica e immagini del secondo pezzo, “Daydreaming“. Il regista d’eccezione è Paul Thomas Anderson, che dirige un Thom Yorke che, ripreso in soggettiva, si muove sul velluto di piano e della sua voce che parla di porte di tutti i tipi, quelle chiuse, quelle che si aprono, quelle del destino e quelle accidentali, il tutto in un contesto onirico che porta l’ascoltatore a mille miglia dal posto dove ha schiacciato play. Malinconia e scorporazione delle emozioni sono concetti centrali dell’ascolto della nuova musica dei Radiohead. Si ha quasi l’impressione che guardandosi le mani o i piedi, durante l’ascolto, si possa vederli scomparire, riaffiorare dietro a pelle, carne e tendini e muscoli, i mobili e il pavimento dietro, i piedi staccarsi dal pavimento, attraversare i muri e i pavimenti e le prime nubi avvinghiare le caviglie, e il mondo conosciuto farsi sempre più piccolo, il blu farsi nero, il tutto farsi vuoto, e in tutto questo la musica ad avvolgerci.
Con queste premesse, una dietro l’altra, i fan ancora storditi da questo idillio di musica e immagini ricevono l’album nella sua interezza, dal titolo “A Moon Shaped Pool”. Vede tre inediti e la riproposizione in studio di pezzi già conosciuti in sede live, alcuni circolanti da vent’anni. Dopo i primi due pezzi già citati, l’album si dipana sulle medesime atmosfere. Il rischio che una progettazione di lancio geniale e i due impressionanti video lasciassero in secondo piano la parte musicale è, diciamolo subito, scongiurato. “A Moon Shaped Pool” è uno dei migliori lavori della band e di conseguenza una delle più importanti uscite dell’anno. Ed è subito chiaro con “Decks Dark”, fine, minimale, con un lieve tappeto ritmico elettronico e una melodia di piano e voce favolosa.
Il lavoro compositivo è eccezionale. Una chitarra acustica suonata in un qualche posto a metà tra inferno e paradiso apre “Desert Island Disk”, dove i Radiohead propongono la loro versione di folk. Ancora la melodia vocale è capace di penetrare la pelle in profondità fino a zone che la musica raramente raggiunge, se non in pochissimi, preziosi casi. “Ful Stop” ha un incedere più ossessivo, riusciamo a vedere i balli spasmodici da marionetta impazzita di Thom Yorke mentre a occhi chiusi tarantoleggia sulle note dal beat ossessivo. Si rientra subito in una stanza oltre i confini del mondo con “Glass Eyes”, atmosfera liquida che ricorda le produzioni evocative di Brian Eno, che ti fa vedere il mondo al di là di un mobile specchio d’acqua, che distorce i contorni, allontana l’esperienza. Un gran giro di basso intreccia “Identikit”, con cori e sovraincisioni vocali su chitarra funky, altro pezzo veramente bello e che ritorna ai Radiohead come si conoscevano prima che perdessero un po’ i contorni.
L’impressione è che esperienze parallele di Yorke come gli Atoms For Peace siano state illuminanti su come usare l’elettronica a servizio e non a discapito del rock. Ora immaginatevi un riff di chitarra preso in prestito dai Led Zeppelin, magari in quell’episodio in cui ci facevano salire scale per arrivare dove più su non si può, aggiungendoci atmosfere da sogno sotto una superficie di liquido mercurio, la voce di Yorke, e ottenete “The Numbers”, bellissima. Il pezzo “Present Tense” è una delle mitologiche composizioni presentate solo in sede live, ma che sui sistemi di streaming in rete ha avuto una vita più attiva di molti suoi colleghi nati in studio. Ha preso finalmente forma uno dei pezzi più apprezzati, addirittura da molti considerato uno dei migliori dell’intera produzione. Uno dei pochi brani inediti del lotto, “Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief”, ricorda le atmosfere dell’immenso “Kid A”. Il disco si chiude con un altro famigerato pezzo da novanta. Per anni anni ascoltata nella versione nuda, acustica, una delle canzoni più belle di sempre prende vita in una veste sontuosa, piano e voce. “True Love Waits” è uno dei motivi per cui vale la pena avere orecchie per incamerare, un cervello per elaborare, un cuore per sentire.
Approcciare un lavoro dei Radiohead comporta aprire non solo le orecchie, ma anche cuore e mente. Le soddisfazioni che dà “A Moon Shaped Pool” sono difficilmente paragonabili ad un album qualsiasi, perché ha il potere di lacerare il tessuto della realtà che ci circonda ed elevarci a qualcosa di più alto, caratteristica da sempre apprezzata nell’arte e nella musica.