Con tutto il rispetto per il “grunge”, la vera svolta del rock and roll degli anni Novanta l’hanno data i Refused. Sbucati fuori dal nulla nel 1994 con quella bomba thrashcore chiamata “This Just Might Be… the Truth”, in poco meno di un lustro gli svedesi sono arrivati a rivoluzionare un genere che sembrava destinato a non cambiare, dando inizio con “The Shape Of Punk To Come” ad una continua evoluzione che morirà idealmente una decina di anni dopo con “Grey Britain” dei Gallows. E’ normale quindi che, dopo la riuscitissima reunion del 2012, l’attesa per questo “Freedom” sia salita alle stelle per tutti gli appassionati del genere, soprattutto alla luce di un singolo di lancio enorme come “Elektra”.
“Freedom” è il risultato di un silenzio durato quasi vent’anni, nei quali i componenti del gruppo (meno Jon Brännström, che lasciò gli scandinavi durante le registrazioni) non si sono parlati tra di loro e hanno esplorato altre sonorità, dall’avantgarde all’elettronica passando per la new wave, mantenendo ben salde le radici nell’hardcore punk (il progetto AC4 su tutti). E tutta questa contaminazione emerge nei dieci brani, mostrandoci una band che non sembra nemmeno l’ombra di quella che urlava inni anticapitalistici a fine anni Novanta, se non fosse per dei testi che restano sempre diversi passi avanti alla concorrenza.
Pochi i richiami diretti al precedente lavoro, circoscritti alla già citata “Elektra”, alla slayeriana “Dawkins Christ” e a “366”, tante le nuove formule introdotte nella matrice Refused, con risultati più o meno altalenanti. L’indie rock incalnzante della conclusiva “Useless Europeans” tiene alta l’attenzione, accostandosi idealmente alla suite “Tannhäuser / Derivè” del precedente album, ma non sono da prendere sottogamba episodi mediocri come “Françafrique”, la discontinua “Thought Is Blood” e “War On The Palaces” che, se non fosse per i fiati nel ritornello, sarebbe uno scivolone mica da ridere. Soprattutto se queste tre canzoni te le trovi una dietro l’altra. L’arrivo degli -anta fa inoltre emergere in fase di scrittura la ricerca di sonorità catchy e radiofoniche, cosa che emerge nella funkeggiante “Servants Of Death” e nella scelta di farsi produrre due brani dal guru del pop (e fan del gruppo) Shellback.
Che i Refused non potessero fare un nuovo “The Shape Of Punk To Come” è una cosa ovvia: altra età, altre teste, tanti progetti fatti nei diciassette anni trascorsi tra il terzo e il quarto full length degli svedesi. Ma quest’ultimo disco, debutto per la statunitense Epitaph e risultato finale ideale e coerente di quanto hanno in testa Dennis Lyxzen e soci nel 2015, esce in un confronto inevitabile come il fratellino secchione, ma sfigato, di una discografia che vanta un’evoluzione dai Suicidal Tendencies della Scandinavia (“This Just Might Be… the Truth”) alla band matura che ha pubblicato un lavoro del calibro di “The Shape Of Punk To Come” osannato da chiunque, perfino da Hayley Williams dei Paramore.