Seguiamo ormai i Rival Sons da molto vicino e con estremo interesse, perché su queste stesse pagine avevamo dichiarato di riconoscere in loro quella fiamma pura e incontaminata che brucia nelle note del rock, in ogni vibrazione delle corde degli strumenti, delle pelli della batteria, nelle corde vocali dei cantanti. Quello spirito che ti fa dimenticare di appartenere ad una società con delle regole, che al mondo tutti abbiamo una posizione in una scala che condanna l’uno a stare più in basso di un altro, a separarci, ad amplificare le differenze.
Nelle note e nello spirito dei Rival Sons dimentichiamo di essere degli impiegati, disoccupati, padri di famiglia, preti. Siamo un’anima rock, che ci unisce tutti. Lo percepiamo ascoltando i loro dischi, ci entra dentro sotto i loro palchi in giro per il mondo. Sentiamo in maniera chiara la temperatura che sale, l’istinto irrinunciabile e irresistibile di urlare e di ballare, in un fiume eterno che scorre nella storia e dalla storia, e ci inonda portandoci allo stesso livello di chi ascoltava Hendrix, i Beatles, chi ardeva di febbre ascoltano un bluesman sconosciuto in una bettola a New Orleans agli inizi del secolo scorso. È per questo che la band di Long Beach è considerata una tra le più innovatrici anche se il suo sound non lo è affatto, perché sono una luce in un’era di appiattimento.
Questa premessa per introdurre lo stato di attesa che copriva l’uscita di “Hollow Bones”. Bene, lasciamo che il fiume scorra, con la title track divisa in due episodi, uno che apre la storia e uno che la chiude. La prima parte è una bomba rock di poco più di due minuti e riconosciamo in essa le dinamiche di rock selvaggio che ha fatto le loro fortune e aperto una breccia nei nostri cuori. La tonalità alta e sofferta del cantato Jay Buchanan, la chitarra dai tizzoni ardenti, dal suono e dallo stile ormai riconoscibilissimo di Scott Holiday. Come sempre, si pensa al rock sensuale e spregiudicato dei Led Zeppelin, alla furia tecnica dei Deep Purple, alla poesia urlata dei Creedence.
Aria fresca dal gusto derivativo, è questa la formula che non ti aspetti, perché tra mille gruppi nostalgici degli anni ’70 i Rival riescono a dare quella fiamma viva da fuoriclasse che dà l’impressione che questo tipo di musica non la stiano riproponendo, ma la stiano sgorgando direttamente dalla fonte. La suite che apre il pezzo seguente “Tied Up” è come una sala vuota illuminata da lucciole colorate, esplodendo poi in ritornello ruvido in cui il titolo viene urlato come per imprimerlo a fuoco nella mente dell’ascoltatore. “Thundering Voices” si staglia lungo un corridoio tappezzato da un riff incisivo e ripetuto, con una sezione ritmica di livello trasformando il refrain ripetuto e ossessivo in una tirata impressionante, che ha solo un momento di pausa in una suite centrale impreziosita dal cantato soffice di Jay.
“Baby Boy” è un altro pezzo dal marchio riconoscibilissimo dei Rival Sons, dove la voce ti urla alle orecchie e gli strumenti ti martellano incessantemente. Il blues rock diventa un’arma di seduzione in “Pretty Face”, prima di lasciare il passo ad un ritornello di hard rock puro, graffiante e diretto. “Fade Out” è una magnifica ballata, una cronaca disperata di una discesa negli inferi, una poesia di oscurità e solitudine, certamente uno dei pezzi più profondi e di maggior spessore dell’album.
“Black Coffey” è un blues acido e febbrile, classicissimo nel suo riff da baia e impreziosito dal cantato femminile corale che alberga sotto le note di Jay, che si veste da spiritato Robert Plant nell’esplosione rock del ritornello. A questo punto del disco siamo conquistati come ci aspettavamo da un lavoro dei Rival Sons, ma dentro di noi sappiamo che non stiamo trovando quello che in cuor nostro speravamo, l’elemento di rottura, di esplosione, quello scatto ulteriore che li avrebbe spediti in maniera definitiva tra i grandi del rock non solo di questa generazione, ma di tutta la discografia conosciuta e passata. La seconda parte della title track è la più lunga dell’album, e presenta ingredienti già assaporati, apprezzati e di resa sicura. Non arriva la bomba, e la dolcissima ballata finale “All That I Want”, romantica e narratrice di un amore destinato per sempre a rimanere nel mondo dell’irrealizzato, non porta a compimento la speranza di essere sconvolti come successo in passato dai lavori dei Rival Sons.
All’interno del contesto discografico attuale, “Hollow Bones” è senza dubbio uno dei picchi più alti, ma ha il ruolo unico, nel contesto della discografia del gruppo, di consolidare una posizione già conquistata. Dopo anni di corsa prepotente e inarrestabile, forse segnare un punto di stabilità e consolidamento e non un passo indietro può essere considerata cosa buona con un bel bagaglio di buoni auspici e poi diciamolo, sono in giro a scaldare il pubblico del tour finale di ragazzacci conosciuti col nome di Black Sabbath, quindi tanto male non gli va. E considerate le canzoni in questo disco da ascoltare e riascoltare, nemmeno a noi.