“Carry Fire” è l’undicesimo disco solista di Robert Plant e questo dato già ci dà un’idea della lontananza anche solo cronologica da quella storia a cui tutti stiamo pensando. Un pensiero che è partito automatico appena pronunciato il nome del frontman, una lontananza non solo di anni (o di chilometri, come direbbe Indiana Jones), ma di stile, di concetto, di anima. Perché niente di più lontano può esserci da quello che facevano i Led Zeppelin.
Il pubblico si è rassegnato da tempo ormai, convinto da una qualità ormai attestata a livelli enormi, dopo molti alti e bassi dei dischi degli anni ’90. Il nuovo Plant è una macchina che produce bellezza e stile immerso in un mood tutto nuovo e che indossa con piacevole perfezione, a suo agio come non mai. Dove non sarebbe più a suo agio, come ha ripetuto infinite volte, sarebbe nei panni succinti del frontman sexy e sfrontato, rumoroso e oscenamente ammiccante dei Zeppelin, un’icona che vuole rimanga inalterata al suo posto, lontana e immortale, come se a calcare quei palchi e a urlare quelle grida lancinanti fosse stato un altro. Per questo rifiuta ogni offerta, la reunion dei Led Zeppelin non s’ha da fare.
La nuova musica di Robert Plant è tutta qua, in “Carry Fire”, un misto di suoni che vengono dalla terra e dalle strade antiche, una cultura popolare che fa respirare il sound di Plant e che lui trasforma in maniera sfacciata in musica in movimento, come una macchina che allontanandosi da un borgo di provincia alza tanta polvere che si posa sulla sua livrea e viene portata in giro per il mondo. Folk e blues con un pizzico di country, raramente si può trovare un mix tale di generi immersi nella terra come le radici di un antico albero ma al tempo stesso così mutevole e globale, che guarda da altezze immani innumerevoli stili e culture.
Cambia la musica e con lei il tipo di approccio che dobbiamo avere nei suoi confronti. Perché se una volta ce la buttava in faccia prepotentemente ora dobbiamo inserirci, quasi da intrusi, all’interno di un monologo di Plant con se stesso. Per questo anche il suo tono si è racchiuso diventando sussurrato, senza per nulla perdere la sua intensità emotiva ed espressività impareggiabile. Non deve più arrivare lontano, non deve più eccitare tutti i presenti di arene immense, dal primo all’ultimo. Plant ora è solo con se stesso e la sua storia e se la vuoi condividere puoi entrare, ma in punta di piedi.
La musica di “Carry Fire” è subito in movimento con “The May Queen”, canzone perfetta per percorrere strade di ogni tipo, basta che siano scorrevoli. Così la sensazione di movimento, di andare avanti rimane ancora con “New World” dove la melodia è facile e a uso e consumo di chiunque apprezzi la bellezza. Dolce e delicato in “Season Song” e diventa quasi pop di vecchio stampo in “Dance With You Tonight”. “Carving up The World Again” cambia pelle ancora e diventa un blues rock dove la voce di Plant riveste alcuni vecchi lustrini e dimostra di essere ancora tremendamente sensuale nonostante le primavere.
L’eclettismo musicale si mostra sempre più con “A Way With Words”, un lamento elegante solo voce e piano. Diventa orientaleggiante con la speziata title track e con “Bones Of Saint” si alleggerisce ulteriormente l’atmosfera con un’esplosione di cori e strumenti di base a un rock classicheggiante. Il disco si chiude con altri esperimenti musicali all’insegna della melodia con “Bluebirds Over The Mountains” con ospite Chrissie Hynde dei The Pretenders e il blues misterioso di “Heaven Sent”. Un’altra perla di rara bellezza da Robert Plant, un disco che suona radicato in mille storie di mille borghi in giro nel mondo, ma in continuo movimento in cerca di orizzonti da raggiungere.