“Is This the Life We Really Want?” esce in Italia oggi, primo giugno 2017, ed è un album importante che entrerà di diritto tra le migliori produzioni della carriera di Roger Waters e della musica moderna. A chi lo criticherà l’arduo compito di trovare qualche motivazione in più, seria e credibile, che non vada a raschiare il fondo del barile dove languono le tediose accuse di fare troppa politica o di aver voluto far facile presa sui nostalgici; chi invece lo apprezzerà saprà dove e come gustarselo appieno, senza fretta, ritagliandosi i momenti giusti per far volare i pensieri e lavorare le emozioni come solo la grande musica sa fare.
È vero, nel successore di “Amused to Death”, atteso da venticinque anni, c’è tutto quello che un fan di Waters e dei Floyd vuole sentire: il basso incalzante di Waters, testi praticamente perfetti, intro e brani interconnessi anche dove vengono interrotti bruscamente, nessun riempitivo, tappeti di synth egregi, echo e delay.
E sì, ci sono anche accenni di assoli di chitarra alla Gilmour, con buona pace di chi sottolinea la loro totale assenza (ascoltare dal minuto 5 e 33 secondi il brano “Picture That” giusto per accennare il primo che si incontra), ballate alla “Mother” e gli immancabili “rumori di fondo” come il ticchettio degli orologi, le voci rubate, l’abbaiare dei cani, le esplosioni e le urla e i classici temi trattati come l’oppressione, la guerra e la tecnologia come ossessione. Un compendio insomma.
Operazione nostalgia dunque? Facile compito a casa per accontentare i fan?
Nient’affatto, anche se “Smell the Roses”, primo singolo estratto, ci aveva messo sulla cattiva strada.
“Is This the Life We Really Want?” è anche un album a suo modo innovativo, di sicuro per gli standard di Waters.
Infatti i tratti rassicuranti di cui sopra vengono inaspettatamente valorizzati da tre principali novità: la produzione di Nigel Godrich che guida Waters come nessun altro prima di lui si è mai permesso di fare, quasi un gioco di squadra, che è l’ultima cosa che ci potrebbe aspettare da Roger conoscendo i suoi trascorsi; un uso dello strumento del pianoforte e delle parti orchestrali in maniera importante e che i meno attenti hanno scambiato non per un elemento di novità, ma come un sostituto all’assenza delle parti di chitarra elettrica ed un finale non cupo, disincantato e crudo, ma aperto ad una speranza a sentimenti rassicuranti come l’amore.
Ma Waters fa anche molto di più: dimostra ai tanti che sembrano essersene dimenticati in questo periodo di magra artistica, che anche negli anni dieci c’è ancora chi registra bene i suoni, chi sa produrre e perde tempo ed energia a far suonare da DIO un album. La differenza qualitativa dell’incisione, rispetto alla media delle uscite, senza voler sparare addosso anche a nomi importanti, è palese. Ascoltate i suoni di questo album, ascoltate come sono riprodotti e come rendono su qualsiasi dispositivo e fate le dovute considerazioni.
Questo album è registrato e prodotto talmente bene, che non servono particolari doti per accorgersene o notarlo, il vostro cervello e soprattutto il vostro cuore ve lo segnaleranno immediatamente.
In “Is This the Life We Really Want?” ci sono capolavori assoluti che abbattono ogni difesa fin dal primo ascolto come “Deja-vù“, “Broken Bones”, ed il trittico finale “Wait for Her”, “Oceans Apart” e “A Part Of Me Died”, che sono da considerare come un unico brano. Ci sono ottime canzoni alla Pink Floyd come “Bird in a Gale”, “Picture That” e “Smell the Roses”, primo singolo estratto e criticata di essere una b-side dei tempi d’oro e magari aggiungo io. Ed infine ci sono canzoni che vanno interpretate, come “The Last Refugee” e “The Most Beautiful Girl In The World“, i brani apparentemente più deboli del lotto, e “Is This The Life We Really Want?” che suona diversa in quanto nata con modalità totalmente inedite per Waters, che ha riadattato in musica una sua vecchia poesia.
Roger Waters è un uomo fortunato, nonostante non sia ancora capace di far pace con i demoni che lo attanagliano, riesce a gestirli e a imbrigliarli, a chiuderli dentro bolle di sapone che durano tre, quattro, cinque minuti e riesce a metterci la bellezza tutta attorno.
Questo suo esercizio di magia è un regalo che ci permette di guardare in faccia le paure, le ossessioni e le ingiustizie che ci circondano e ci accomunano senza appesantirci. In modo liberatorio.
Sarebbe bello se riuscisse a farlo ogni anno, in modo terapeutico, ma è un trucco di magia davvero difficile, riesce solo una volta ogni quarto di secolo.