Con il secondo attesissimo album dei Royal Blood “How Did We Get So Dark?” siamo di fronte a un bel problema. Fermi, l’album è bello e io non vorrei metterci di più di quello che un buon ascolto energico e fluido richiede. Ma stiamo vivendo un momento buio del rock e i tre anni di pausa del gruppo prima di riproporsi nel mercato discografico non sono abbastanza per dimenticare tutte le speranze che in loro abbiamo riposto quando uscì il prepotente esordio.
Non mentiamo a noi stessi, tre anni fa abbiamo tutti gridato al miracolo scorgendo la luce in fondo a un tunnel di buio musicale, una pochezza di idee e di attitudine che stanno facendo appassire lo spirito che bruciava in generazioni precedenti la nostra, quella degli anni ’70 o dei più recenti nineties. Ora, la luce in fondo al tunnel non è un treno che ci sta arrivando in piena faccia, nulla di così drammatico. Non è però nemmeno la fine del tunnel.
Sono tutte cose che si potevano prevedere, limiti strutturali di proposta e di composizione della band che però non ci hanno messo al riparo dall’assioma universale che più in alto vai più male ti farai cadendo. Non sono solo sbucciature quelle che ci portiamo a casa ascoltando “How Did We Get So Dark?”, ma veri e propri traumi da urto contro la consapevolezza che una proposta così scarna e diretta, la vera forza dell’esordio, sarebbe inevitabilmente diventato il limite della prosecuzione della carriera del gruppo inglese.
La formula quindi non cambia e nessuno voleva che così fosse. Quindi all’ascolto ritroviamo esattamente gli stessi elementi dell’esordio solo con una produzione meno spigolosa, più levigata agli angoli che rende l’album ancora più fluido e ficcante del precedente. Questo è già il primo testa coda, perché se da un lato l’ascolto diventa veramente uno scorrere incessante di riff e melodie miscelate in modo fastidiosamente equilibrato, cancella un mood che non è assolutamente da considerare un difetto da modificare. Quel sound spigoloso pieno di angoli inaspettati, lo sporco che faceva ‘garage’ il rock diretto dell’esordio ha contribuito non poco a delineare l’immagine e il sound scanzonato e sbruffone dei Royal e questa virata li ridimensiona a un atteggiamento mainstream che stona un po’.
La seconda grande arma a doppio taglio è la riproposizione forzata del codice a barre del prodotto precedente. Il basso super effettato usato, e fatto suonare come una chitarra, vira dalla pesantezza stoner al catchy del garage blues alla melodia dell’hard rock di massa che ammicca ai grandi punti di riferimento del settore, dai Coldplay ai Muse; mentre il cantato è il solito pulito fighetto adatto a creare un impasto radiofonico che, con la produzione composta di questo secondo disco, diventa veramente troppo compassata senza spunti interessanti anche nelle numerosissime (come anche nel primo album) citazioni melodiche al cantato di Josh Homme nei Queens Of The Stone Age.
In questo contesto di tutto troppo giusto, tutto troppo dritto, ecco che spicca forse l’unica canzone ‘storta’ del lotto e che si erge a migliore e più interessante dell’album: “She’s Creeping”. Obliquità sensuale e ritmo che conquista, questo pezzo è un’accusa diretta e autoinflitta dei Royal che dimostra che la strada dell’autoaffermazione a rischio zero era si forzata dall’inevitabilità della proposta a due strumenti, ma soverchiabile nonostante tutto con una buona dose di palle e di malattia musicale.
Per il resto i pezzi infiammanti ci sono, da “Lights Out” a “I Only Lie When I Love You” e “Where Are You Now”, funzionano a meraviglia. Sono sicuro che come con tutta la loro esigua produzione esistente fino a ora, questi pezzi in sede live acquisteranno una buona percentuale di benzina da bruciare in più, fisiologico con due soli strumenti. Manca qualcosa a “Don’t Tell” per farla diventare il lento emozionante che potrebbe essere, quel qualcosa che dovrebbe inserirla in profondità ben sotto la pelle di gallina che viene a un buon ascolto ma che invece rimane lì, sopra la pelle che rimane bella liscia.
“Hook Line & Sinker” ripropone la formula largamente utilizzata all’esordio e va forte come un treno mentre in “Hole In Your Heart” l’aggiunta inedita dell’organo li avvicina ancora di più al sound dei QOTSA (assomiglia parecchio a “Make It Wit’Chu”).
Il problema principale è che anche i momenti più riusciti di “How Did We Get So Dark?” non reggono il confronto con l’esordio, che momenti non riusciti nemmeno ne ha. Forse l’unica via di bissare la qualità del primo album (successo di vendite ne stanno avendo anche con questo secondo disco) sarebbe stato scostarsi dal consueto e approcciare terreni più dark. Lo avete anche annunciato a grandi lettere addirittura nel titolo del disco, perché cari Royal Blood non lo avete fatto? La prossima volta invece di guardare ai Muse, provate ad ascoltarvi un po’ di Black Sabbath prima di comporre, potrebbe fare bene.