The Heavy Countdown #54: Sevendust, At The Gates, The Body, Burn The Priest

Sevendust – All I See Is War
I Sevendust hanno bisogno di ben poche presentazioni. Dopo un totale di dodici full-length (incluso “All I See Is War”) e la bellezza di ventiquattro anni di carriera con la stessa line-up degli esordi, il sound dei Nostri non potrebbe essere più solido, e distinguibile di così. Il groove, l’inclinazione per la melodia e il timbro riconoscibile tra mille dello storico vocalist Lajon Witherspoon non sono cambiati di una virgola nel tempo, permettendo alla band di rimanere tra i fuoriclasse di quell’alternative metal che andava tanto di moda quando eravamo giovani. “Not Original” (per citare il titolo di uno dei nuovi brani), ma va benissimo così.

At The Gates – To Drink From The Night Itself
Senza troppi giri di parole, per lo meno nel suo genere, “To Drink From The Night Itself” era uno dei dischi più attesi di questo 2018. Tra i nomi di punta storici del melodeath made in Goteborg, gli At The Gates diventano uno dei simboli assoluti della scena in seguito alla pubblicazione del quarto disco, “Slaughter of the Soul”. E nonostante uno iato di circa dodici anni e qualche inevitabile cambio in line-up, Tomas Lindberg e soci continuano ad essere rilevanti, e lo fanno con un album che è una vera e propria dichiarazione d’amore per l’arte in sé e per sé.

The Body – I Have Fought Against It, But I Can’t Any Longer.
Il titolo del nuovo full-length dei The Body è un estratto di una delle ultime lettere di Virginia Wolfe. Anche chi non avesse mai sentito parlare del duo originario dell’Oregon, con una premessa del genere capisce al volo che qui non si scherza, per un cazzo. La parte più marcia e disturbata di quei famosi split con i Full Of Hell di cui abbiamo parlato negli anni scorsi pubblica la colonna sonora dei nostri peggiori incubi, tra distorsioni elettriche ed elettroniche, e urla degne delle banshee più indemoniate. “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”, ma anche voi che avete il fegato di ascoltare “I Have Fought Against It, But I Can’t Any Longer.” dall’inizio alla fine.

Bad Wolves – Disobey
Due cose sono certe dopo aver ascoltato il debutto dei Bad Wolves: i Nostri non verranno ricordati solo per la cover di “Zombie” dei Cranberries e il frontman Tommy Vext non è più semplicemente “quello che ha sostituito Ivan Moody nei Five Finger Death Punch quando ha dato di matto”. Con una produzione top nel genere, e una serie di ganci davvero irresistibili (soprattutto nella prima metà del disco), “Disobey” si attesta tra le migliori sorprese in ambito metalcore dell’anno in corso. Forse il lavoro perde un po’ di mordente diluendosi in una durata piuttosto eccessiva per gli standard, ma ripeto, avercene.

Burn The Priest – Legion: XX
Per chi avesse vissuto su un altro pianeta fino ad oggi, vi basti sapere che i Burn the Priest sono in realtà i Lamb Of God sotto mentite spoglie. E “Legion: XX”, più che un disco di cover, è un vero e proprio tributo che Blythe e soci dedicano alle loro radici hardcore punk. I BTP/LOG, poi, non si limitano esclusivamente a riproporre come da manuale i loro pezzi preferiti, ma lo fanno regalando loro una personalità nuova, come in effetti dovrebbe succedere per tutte le cover ben riuscite. Un ottimo modo non solo per onorare il passato, ma anche per far conoscere ed apprezzare alle nuove generazioni band come Ministry, S.O.D., Quicksand e The Accused.

Engel – Abandon All Hope
Al quinto full-length, dopo ben quattro anni di silenzio, gli svedesi Engel raffinano il proprio sound lasciandosi cullare in balia totale dalle onde (guarda un po’) di quel melodeath che tanto piace ai loro connazionali. Per chi non lo sapesse, gli Engel sono una sorta di supergruppo, vantando tra le proprie fila Niclas Engelin (In Flames) e Marcus Sunesson (ex The Crown). Insomma, con due nomi del genere c’è poco da aggiungere. E sappiamo benissimo dove “Abandon All Hope” andrà a parare ancora prima di premere play.

Obliterate – Impending Death
Gli Obliterate sono una band canadese formatasi nel 2010. Relativamente giovane, la formazione deathcore fa quello che sicuramente sa fare meglio. “Impending Death” infatti è un disco nella migliore tradizione contemporanea: produzione ottima, breakdown letali e vocals altrettanto devastanti, oltre che convincenti. Il classico album deathcore con i controfiocchi, come tanti là fuori del resto. Ma forse per i Nostri è ancora troppo presto per fare la differenza.

The Afterimage – Eve
È evidente che sull’altarino degli Afterimage ci siano i Dance Gavin Dance e (in minor misura) gli Eidola. Quindi, il debutto della band, intitolato manco a farlo apposta “Eve”, è un prog-mathcore fortemente imbevuto di influenze pop ed elettroniche. L’opera numero uno della giovane formazione, se ci si ferma ai primi pezzi e al primo singolo, è solo all’apparenza accessibile e leggerotta, ma è in realtà frutto di una certa maturità e consapevolezza dei propri mezzi, se non fosse per un paio di ballad terribili (una su tutte, “Mirrors”) e per la title track, che anziché essere perno del disco, è un intermezzo parlato poco sensato nell’economia del lavoro.